La Chiesa cattolica si è dotata da alcuni anni di una organizzazione chiamata “Caritas”, che si occupa in maniera costante e programmata dell’assistenza ai poveri, agli immigrati, ai disadattati sociali. Una struttura specialistica, presente in tutte le diocesi, che risponde nel modo più efficace possibile ai problemi delle persone ed alle carenze della società, il più delle volte supplendo all’inefficienza o all’incapacità di Comuni, Province, Regioni. Quasi dovunque questa organizzazione è guidata da persone di grande sensibilità e dedizione agli altri, sacerdoti o laici, che conoscono le problematiche più acute e sofferte della marginalità sociale e riescono a dare risposte pratiche ed organizzative molto efficaci. Addirittura questi “specialisti del servizio sociale” diventano protagonisti del dibattito civico e culturale, con risvolti politici, come è accaduto al responsabile della Caritas della diocesi di Venezia, don Dino Pistolato, che, a proposito di immigrati avrebbe avanzato la proposta di limitarne l’afflusso perché fanno concorrenza agli italiani bisognosi di lavoro e di assistenza e rischierebbero di provocare un conflitto etnico. Magari le sue motivazioni saranno state nobili e diverse dall’interpretazione che ne è stata fatta in una società veneta a maggioranza egoista e leghista, ma è stato facile per la parte più retriva dell’opinione pubblica dire che “anche la Chiesa cattolica ha capito che bisogna fermare l’afflusso di immigrati e difendere innanzitutto i locali”.
Ma è doveroso domandarsi, come cristiani, se l’attenzione verso i poveri, o lo stesso comportamento della Chiesa che è “beata” solo se povera, sia un settore della pratica e della pastorale da affidare ad una organizzazione specialistica, o non dovrebbe essere, invece, la prima ed orientante finalità dell’essere religione scaturita dall’insegnamento di Gesù di Nazareth e da quello di Paolo di Tarso. Stupisce infatti constatare che, proprio per la sua specializzazione acquisita in questi anni, la Caritas svolga un ruolo di supplenza non solo nei confronti delle istituzioni pubbliche, ma anche della stessa Chiesa e della coerenza individuale dei cristiani. La Caritas rischia di essere l’alibi per tante diocesi e parrocchie che non mettono la pratica della povertà e “gli ultimi” come caratteristica strutturale della Chiesa di Gesù, e di tranquillizzare le coscienze dei ricchi che devolvono a questa organizzazione i loro guardaroba inutilizzati, i loro avanzi di cibo non consumato o scaduto, quel po’ di denaro in più che una volta si chiamava “elemosina” e che ora viene dato a chi si occupa dei bisognosi. Ma la “charitas” che deve essere la sostanza della fede cristiana e lo specifico della comunità che crede nel Dio dell’Amore, non può essere la specializzazione di alcuni soltanto. Perché un immigrato che non ha casa e vestiti deve rivolgersi alla organizzazione diocesana, e magari la parrocchia dove vive ha la canonica vuota? I poveri e gli emarginati non possono essere lasciati alle cure di alcuni, mentre la pastorale parrocchiale si occupa di campeggi per ragazzi, organizzazione del tempo libero degli anziani,e la gran parte del tempo dei sacerdoti è sprecata nel portare avanti pratiche obsolete e inutili, come la sacramentalizzazione di massa o le messe a ripetizione per ogni occasione, la conduzione burocratica della struttura parrocchiale svuotata dello spirito vero di “charitas”. Far assumere alle comunità locali, se vogliono riprendere il vero spirito del capitolo 13 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, la dimensione dell’amore attento e disinteressato. “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. (Paolo, I Cor. 13,3). Se le diocesi e le parrocchie hanno la Caritas, anche perfettamente funzionante, ma non assumono la caratteristica della “charitas” diventano , come di fatto sono, “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”.
Lucio Eicher Clere
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