martedì 16 giugno 2015

Il Veneto anticristiano che vota Zaia




Ospito e condivido questa riflessione di Samuele De Bettin sulla deriva antievangelica del “cattolicissimo Veneto”.

In questi giorni in cui dalle fogne dei social network vengono espettorate le peggiori  infamie contro uomini e donne colpevoli di essere nati nella parte sbagliata del mondo; di avere la sfrontatezza e la protervia di avere fame e sete di cibo, innanzitutto, ma anche di giustizia e di pace; che hanno  il cattivo gusto di infastidire la nostra tranquillità quotidiana…  ebbene, in questi giorni, che fine hanno fatto i difensori della secolare identità cristiana che qualche anno fa si battevano per l’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche e dei tribunali? Che fine hanno fato i “papa boys” osannanti alle messe spettacolo e sordi ai richiami di Francesco sugli elementari  principi evangelici? Dove sono le frotte di pellegrini che si affollano scalpitando per un posto su un pullman diretto a Medjugorie o a San Giovanni Rotondo?
Ho cercato invano nei Vangeli o da qualche altra parte del Nuovo Testamento per vedere se trovavo indicazioni in merito alla necessità di difendere “valori non negoziabili” o l’obbligo di esporre i crocefissi nei luoghi pubblici. Non vi ho trovato traccia. Ne ho trovate molte altrove: sul testo della legge Lanza del 1857, sull’O. M. 250 dell’11 novembre 1923 del ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco (“prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di sua maestà il re sia restituito il Crocifisso secondo la nostra tradizione”), sui regi decreti n. 965 del 1924 e n. 1297 del 1928, relativo rispettivamente alle scuole superiori ed elementari. Bei tempi quando in Italia comandava un simpatico romagnolo che di sé amava definirsi “cattolico e anticristiano”! Insomma sfogliando le Scritture non mi sono imbattuto in affermazioni che possono far pensare alla necessità di erigere, contro orde di infedeli invasori, barriere di crocifissi, madonne oranti, santi intercessori, veggenti in estatico rapimento. Vi ho trovato invece frasi come “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere; ERO FORESTIERO E MI AVETE OSPITATO, nudo e mi avete vestito (Mt 25, 35-36). Dettagli si dirà, belle cose da dire, impossibili da realizzare, “buonismo”. Molto più facile aggrapparsi a tradizioni antiche, riconoscersi in simboli identitari e tradizioni folkloristiche, ma che soprattutto non ci costano nulla! Oltre a papa Francesco anche un prelato non certo assimilabile tra i progressisti, come il Cardinale Bagnasco, non ha perso occasione di ribadire che l’accoglienza appartiene al Cristianesimo come elemento essenziale e non certo accessorio. Qual è la risposta del cattolico Veneto a tutto ciò? Valanghe di voti a un presidente della Regione che ha puntato tutta la campagna elettorale sullo stop agli immigrati, che chiede ai cittadini del Veneto di non accogliere - nemmeno nelle proprie case - dei profughi. Da quando chi ospita un forestiero è un pericolo per la cittadinanza? Per la Chiesa bellunese, veneta, tutto ciò è normale? L’anno scorso mi è capitato di sentire il presidente Zaia rivendicare con orgoglio l’epoca in cui, piccolo chierichetto, collaborava alla distribuzione dell’ “Azione”, settimanale diocesano di Vittorio Veneto.  Forse anche lui ritiene che per essere cattolici non si può essere cristiani?

Samuele De Bettin

martedì 9 giugno 2015

Meglio preti amanti che celibi




La diocesi di Belluno-Feltre deve rinunciare ai suoi sacerdoti migliori a causa dell’assurda persistenza del celibato obbligatorio per chi sceglie il ministero di presbitero. 
Un clero vecchio e stanco, frustrato e inaridito nei sentimenti, tenta di far credere alla gente, anche ai fedeli più devoti, che le debolezze della carne sono un’eccezione, che il povero “don” che si è lasciato invischiare in una storia d’amore con una donna sposata e madre era “sotto stress”. Poveri ipocriti e difensori della disumanità. Stanno resistendo dentro alla trincea dell’egoismo celibatario, imponendo a se stessi ed ai pochi giovani che ancora hanno forza e coraggio per mettersi a disposizione di una comunità parrocchiale, la rinuncia all’affettività ed alla sessualità, siano esse omo o eterossessuali.  Il declino della vita cristiana negli ultimi decenni è legato anche alla scarsità di risorse umane dentro alla casta pretesca, perché la caratteristica fondamentale per “consacrare” un giovane come sacerdote è la sua rinuncia alla sessualità. Arrivano al sacerdozio pochi giovani fragili e mal-educati ai rapporti  affettivi, che non hanno chiarito a se stessi se la scelta celibataria è una caratteristica che può far parte del loro bagaglio umano, oppure se è soltanto una improvvida accettazione di un ordine assurdo e fuori del tempo.
Eppure l’amore è l’unica legge che Gesù e i suoi primi apostoli che hanno dato origine alla chiesa cristiana hanno posto come guida della fede personale e comunitaria. L’amore si esprime in vari modi, ma è sempre legame concreto, sguardo, parola, intesa di occhi e di cuore. Dall’intensità di rapporto tra madre e figlio, alla scoperta degli impulsi dell’innamoramento nell’adolescenza, alla scoperta della totalità del donarsi reciproco tra persone che si conoscono e si scelgono. L’imposizione del celibato a preti, frati e suore, con la spiegazione che la “verginità” permette di amare tutti con più apertura di cuore è un’invenzione ipocrita, che spesso si traduce nell’esercizio dell’indifferenza, perché amare tutti può anche voler dire non amare nessuno. Preferisco di gran lunga i sacerdoti e le suore che hanno il coraggio di rompere l’oppressione celibataria, anche con scelte dure e sofferte, piuttosto che il gregge dei succubi che non ha mai accostato il mistero dell’amore dentro allo spirito ed al corpo di una umanità che proprio il Dio dell’amore ha dotato di sessualità e di affettività.
Se i sinodi dei vescovi cattolici capissero il momento storico di un papato svincolato dai legacci e dai conservatorismo vaticani e affrontassero con libertà e lucidità il tema del sacerdozio non celibatario, darebbero alle comunità cristiane un segnale di grande apertura nell’anno del giubileo della misericordia. Una misericordia che essi dovrebbero esercitare verso se stessi prima di tutto, lugubri detentori di una legge mai detta e mai voluta da Gesù, se non per libera scelta di chi voglia essere “eunuco per il regno dei cieli”. L’esperienza secolare del servizio ministeriale esercitato dai “pastori e pastore” protestanti è lì a dimostrare quale sia la strada da percorrere per rendere più credibile la funzione di guida delle comunità dei credenti in Cristo. Ammettere di aver sbagliato per secoli, imponendo agli altri “pesi che non si possono portare (Mt. 23, 4)”, potrebbe essere un passo verso un ecumenismo vero e dialogante, e una finestra aperta per far entrare il vento dello spirito, che è luce e amore.
Mi sento umanamente vicino a quel sacerdote e a quella donna che hanno vissuto la fascinazione dell’innamoramento. Amare non è mai peccato.

Lucio Eicher Clere

venerdì 6 marzo 2015

Don Lorenzo Milani santo



La citazione di una frase di don Lorenzo Milani, fatta dal segretario della Lega Nord Matteo Salvini nel comizio di Roma, “l’obbedienza non è più una virtù”, lascia sgomenti quanti hanno conosciuto le parole e le opere di don Lorenzo e conoscono quelle del becero capo di un partito razzista. Verrebbe naturale citare, per contrapposizione, un proverbio popolare, “scherza coi fanti (in questo caso i fantocci, i buffoni leghisti) e lascia stare i santi”. E proprio in riferimento ai santi, l’insulto di trascinare le parole di un profeta dentro agli squallidi istinti di una mandria xenofoba, fa sorgere un desiderio e un interrogativo che sarebbe giusto rivolgere a papa Francesco: “quando proclamerà santo Lorenzo Milani?”
Per capire la singolarità e la grandezza di quest’uomo, nato nel 1923 e morto nel 1967, bisogna salire per una stradina di mezza montagna, nel Mugello, e raggiungere Barbiana, cioè una chiesa con attigui la canonica e un casolare, dove don Milani esercitò la missione di sacerdote e maestro per una ventina d’anni. Un eremo nel bosco, che la Fondazione don Lorenzo Milani, presieduta da Michele Gesualdi, uno dei primi alunni della scuola, ha voluto conservare come era allora, testimonianza viva di una avventura irrepetibile. A Barbiana don Lorenzo ha voluto essere sepolto. Il minuscolo cimitero è poco più in basso della chiesa. Anche i suoi resti corporei sono diventati terra vicino a quelli di pochi contadini che abitarono quei casolari sperduti che formano la borgata del comune di Vicchio. L’ultima sepolta è stata Eda Pelagatti, sua collaboratrice, morta nel 2002. Sulla sua lapide c’è scritto: “Ha testimoniato con don Lorenzo Milani la parola di Dio e l’amore per i poveri”.
Che la vita di don Milani sia stata una testimonianza di santità evangelica è una evidenza per  tanti cristiani, soprattutto per quelli che non credono alle sorprese casuali chiamati miracoli, per cui si invocano Madonne di tutti i tipi e Santantoni e Padrepii di varia specializzazione prodigiosa, ma danno credito alla coerenza tra parole ed opere nella sequela di Gesù.
Come Francesco d’Assisi, che si svestì della ricchezza di famiglia per abbracciare “madonna povertà”, il benestante Lorenzo Milani decise a 19 anni di cambiare vita, facendosi prete, ma non come carrierista gerarchico, bensì per stare dalla parte degli ultimi. Gli anni da cappellano a San Donato di Calenzano, raccontati nel libro “Esperienze pastorali”, sono intrisi d’amore per i poveri e gli sfruttati. Quelle pagine furono stroncate dall’osservatore romano e da Civiltà cattolica e gli fruttarono la “promozione” a parroco di 40 anime a Barbiana. Da quell’eremo la voce del profeta Milani si sparse dovunque. I semi della sua testimonianza al servizio dei ragazzi di quell’angolo di Toscana povera e disprezzata, che lui seppe far crescere in sapienza e dignità civile, si sparsero in tutta Italia e dovunque si è conosciuta  la sua azione di maestro e sacerdote.
Santificare don Lorenzo Milani in questi anni di disfacimento della società italiana e occidentale, avrebbe un valore simbolico e di sottolineatura degli autentici valori cristiani.
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”, frase tratta dalla “Lettera ai giudici”, che lo processarono per aver difeso gli obiettori di coscienza alla guerra ed al servizio militare, assieme ad altre schiette e profonde parole del santo sacerdote di Barbiana, possono essere proposte come programma di vita coerente per una  vera umanità libera , di fronte alla schiavitù imposta dal potere economico che propaganda il consumismo e l’edonismo indifferente alla sorte dei poveri e degli ultimi del pianeta della sofferenza.
Il suo essere stato testimone scomodo e controcorrente, fedele alla legge ma fiero di insegnare ai ragazzi la libertà di giudizio e di coscienza, ne fa un vero “cristiforme”, cioè un seguace di Gesù, che non cancellò la legge ebraica ma ne smascherò le ipocrisie e le incoerenze, fino a essere processato e rimetterci la vita.
“Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia  o di indisciplina. Nessuno d’aver fatto carriera”. Ma proprio questa “carriera “ al contrario dovrebbe meritare per don Milani il cosiddetto “onore degli altari”. San Lorenzo Milani sarebbe un santo che pregheremmo in tanti volentieri.

Lucio Eicher Clere