mercoledì 26 gennaio 2011

L’ipocrita linguaggio “vescovese”


Tanti cattolici che si erano stupiti del silenzio della Conferenza episcopale italiana sugli scandali di Berlusconi da Arcore, dopo aver ascoltato il generale di corpo d’armata in pensione, cioè il presidente della Cei Angelo Bagnasco, all’apertura dei lavori del porporato consesso episcopale ad Ancona, si saranno detti con amarezza che sarebbe stato meglio se il silenzio fosse proseguito.  Non che sperassero nella limpidità evangelica voluta da Gesù ( “il vostro parlare sia “si” o “no”); e nemmeno si attendevano le invettive di Gesù del “Guai a voi”, di “razza di vipere”, “sepolcri imbiancati”; o del paolino “togliete il malvagio di mezzo a voi”. Ben sanno i rassegnati cattolici italiani che dalle sacre labbra dei loro vescovi ben difficilmente escono parole che risvegliano la mente e fanno ardere il cuore, come dissero i discepoli di Emmaus dopo aver cenato con uno sconosciuto la sera di pasqua: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?"(Lc 24, 32). Ben sanno i delusi cattolici italiani che le prediche e le considerazioni dei loro pastori sono stantie,  ripetitive, innocue, sterili come il vento sulla sabbia. Ben sanno i cattolici praticanti e anagrafici che la vita dei vescovi è uno scontato trascinarsi di quieta vecchiaia negli agi delle residenze episcopali, con una seriale presenza a cerimonie e riti che non hanno alcuna valenza concreta nella vita delle persone e delle comunità. Ben sanno i cattolici benestanti e benpensanti che i loro vescovi sono legati ai privilegi di potere concessi alla gerarchia italiana dal Concordato di Mussolini nel 1929 e di Craxi nel 1984 e che sono disponibili a tutti i compromessi tra potentati, anche a scapito della coerenza con il vangelo. Per questo il silenzio di fronte ai comportamenti immorali di Berlusconi sarebbe stato inquadrabile dentro a una logica utilitaristica, un calcolo in vista di future prebende e provvedimenti legislativi che assecondino appetiti e pruriti clericali. Invece il generale Bagnasco, con quella sua voce affettata e arida, ha voluto far finta di prendere le distanze da Berlusconi pronunciando frasi calcolate e diplomatiche (“squarci di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza”) come se stesse parlando di avvenimenti generici che possono capitare a chiunque. E poi ha voluto prendere le distanze anche dai magistrati che non si sono lasciati intimidire dal potente, ricco e proprietario di tutte le televisioni più viste in Italia. (“ci si chiede a cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”). E tutti, maggioranza, minoranza a citare, a interpretare e adattarne il senso secondo la convenienza. Proprio ciò che vuole un cardinale che parla in “politichese” o “vescovese” senza far riferimento all’unica fonte della Chiesa, che è il vangelo di Gesù. L’aver evitato accuratamente di parlare della pubblica immoralità di un governante, in una realtà ecclesiale italiana dove si è diffuso il senso di ribellione e di condanna di questa peccaminosa indecenza, è un invito a proseguire con più discrezione, senza cambiare stile di vita. Il “vescovese” ipocrita di Angelo Bagnasco è coerente con il comportamento dei prelati, controtestimonianza costante della prassi e dell’insegnamento di Gesù di Nazarteh. Conforta invece i credenti in lui, il constatare quanti laici, preti e anche alcuni vescovi sappiano esprimere senza paura la condanna evangelica nei confronti di un ricco imbroglione, che vorrebbe comprarsi con le donazioni in denaro anche la vita eterna.
Lucio Eicher Clere

martedì 18 gennaio 2011

Vescovo Tettamanzi, scomunichi Berlusconi!



Lo scandaloso silenzio della Conferenza episcopale italiana nei confronti del comportamento privato e pubblico del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non può non indignare le coscienze dei cattolici praticanti, di quelli anagrafici che ancora non siano ottusi dalla televisioni di proprietà del signore di Arcore, e soprattutto dei credenti in Gesù Cristo, che ha lanciato i suoi “Guai a voi” soprattutto contro gli ipocriti e i ricchi e che ha detto inequivocabilmente a chi dà scandalo ai piccoli, ai minorenni, “sarebbe più conveniente per lui che gli fosse appesa al collo una macina da somaro e fosse affondato in alto mare” (Mt. 18,6). Tace, a volte anche in maniera complice come fanno i suoi amici preti e vescovi, quella gerarchia che nei confronti della sessualità normale delle persone normali (eterossessuali che si separano e formano una nuova coppia, omosessuali, sull’uso degli anticoncezionali e altro) esprime sempre giudizi di condanna. Tace quella gerarchia che per secoli ha investito la sfera della morale sessuale di una carica di peccaminosità così cupa e infernale da condizionare la mente e la psicologia profonda di generazioni di donne e uomini. Tace per convenienza di privilegio, di denaro e potere quella gerarchia che ha già chiuso due occhi su altri comportamenti gravissimi di Berlusconi, quali la corruzione, la complicità con mafiosi, il riciclaggio di denaro sporco, l’evasione fiscale.
L’intervento fatto dal papa Benedetto XVI sull’educazione sessuale, che sarebbe una minaccia alla libertà religiosa, appare talmente fuori luogo da risultare ridicolo. Lui, il vescovo di Roma, che stringe la mano e accoglie felice Silvio Berlusconi, cioè colui che ha male-educato intere generazioni negli ultimi trent’anni, impostando le sue televisioni commerciali sull’esibizione sessuale di corpi giovani e adolescenti, anziché rifiutare ogni occasione di contatto con lui e condannare quel tipo di “educazione sessuale” irresponsabile provocata da quell’imprenditore senza scrupoli. Le televisioni di Berlusconi hanno minato tutte le libertà di pensiero e comportamento, non solo quella religiosa. Che scadalosa questa gerarchia cattolica italiana!
Ma non tutti i preti ed i vescovi sono succubi e silenti di fronte alla malvagità berlusconiana. Vorremmo in particolare che il vescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, nella cui diocesi esibisce i suoi comportamenti vergognosi e immorali Silvio Berlusconi, da molti cattolici e preti corteggiato e stimato come cattolico caritatevole, avesse il coraggio di prendere le distanze da questo personaggio e indicarlo alla comunità cristiana della diocesi di Milano come pubblico peccatore. E quindi usare nei suoi confronti quella intransigenza con cui Paolo si era rivolto ad un membro della comunità di Corinto, che aveva comportamenti non compatibili con l’appartenenza alla Chiesa di Cristo. “Questo individuo sia dato in balia di satana per la rovina della sua carne” (I Cor, 5,5).
E’ quella che da sempre si chiama “scomunica”. Chi più di Berlusconi, caro vescovo Dionigi, merita la scomunica dalla comunità diocesana di Milano? Lei, erede di quel vescovo Ambrogio che non esitò a mettere l’imperatore Teodosio di fronte alla sue gravi responsabilità di massacratore di 7000 persone a Tessalonica e, pena la scomunica, imporgli una pubblica penitenza, espella dalla Chiesa milanese quell’anticristiano. Sarà molto difficile infatti che le accada quel che Manzoni racconta sia accaduto a Federigo Borromeo riguardo alla conversione del malvagio Innominato, il quale, posto di fronte alle sue reponsabilità, dice “Dio veramente buono, io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso”. Lo spudorato signore di Arcore non solo non ammette le sue colpe, ma anzi nega tutto e continua a imbrogliare molti italiani ottusi dalla sua propaganda e anche molti cattolici. Vescovo Tettamanzi, lei che ha dimostrato in molte occasioni il coraggio della profezia, scomunichi Berlusconi come segnale forte nei confronti della comunità cristiana in Italia, stordita e scandalizzata dai comportamenti di Berlusconi e dal silenzio del papa e della Cei.
Lucio Eicher Clere

giovedì 13 gennaio 2011

La "charitas" delegata ai tecnici


La Chiesa cattolica si è dotata da alcuni anni  di una organizzazione chiamata “Caritas”, che si occupa in maniera costante e programmata dell’assistenza ai poveri, agli immigrati, ai disadattati sociali. Una struttura specialistica, presente in tutte le diocesi, che risponde nel modo più efficace possibile ai problemi delle persone ed alle carenze della società, il più delle volte supplendo all’inefficienza o all’incapacità di Comuni, Province, Regioni. Quasi dovunque questa organizzazione è guidata da persone di grande sensibilità e dedizione agli altri, sacerdoti o laici, che conoscono le problematiche più acute e sofferte della marginalità sociale e riescono a dare risposte pratiche ed organizzative molto efficaci. Addirittura questi “specialisti del servizio sociale” diventano protagonisti del dibattito civico e culturale, con risvolti politici, come è accaduto al responsabile della Caritas della diocesi di Venezia, don Dino Pistolato, che,  a proposito di immigrati avrebbe avanzato la proposta di limitarne l’afflusso perché fanno concorrenza agli italiani bisognosi di lavoro e di assistenza e rischierebbero di provocare un conflitto etnico. Magari le sue motivazioni saranno state nobili e diverse dall’interpretazione che ne è stata fatta in una società veneta a maggioranza egoista e leghista, ma è stato facile per la parte più retriva dell’opinione pubblica dire che “anche la Chiesa cattolica ha capito che bisogna fermare l’afflusso di immigrati e difendere innanzitutto i locali”.
Ma è doveroso domandarsi, come cristiani, se l’attenzione verso i poveri, o lo stesso comportamento della Chiesa che è “beata” solo se povera, sia un settore della pratica e della pastorale da affidare ad una organizzazione specialistica, o non dovrebbe essere, invece, la prima ed orientante finalità dell’essere religione scaturita dall’insegnamento di Gesù di Nazareth e da quello di Paolo di Tarso. Stupisce infatti constatare che, proprio per la sua specializzazione acquisita in questi anni, la Caritas svolga un ruolo di supplenza non solo nei confronti delle istituzioni pubbliche, ma anche della stessa Chiesa e della coerenza individuale dei cristiani. La Caritas rischia di essere l’alibi per tante diocesi e parrocchie che non mettono la pratica della povertà e “gli ultimi” come caratteristica strutturale della Chiesa di Gesù, e di tranquillizzare le coscienze dei ricchi che devolvono a questa organizzazione i loro guardaroba inutilizzati, i loro avanzi di cibo non consumato o scaduto, quel po’ di denaro in più che una volta si chiamava “elemosina” e che ora viene dato a chi si occupa dei bisognosi. Ma la “charitas” che deve essere la sostanza della fede cristiana e lo specifico della comunità che crede nel Dio dell’Amore, non può essere la specializzazione di alcuni soltanto. Perché un immigrato che non ha casa e vestiti deve rivolgersi alla organizzazione diocesana, e magari la parrocchia dove vive ha la canonica vuota? I poveri e gli emarginati non possono essere lasciati alle cure di alcuni, mentre la pastorale parrocchiale si occupa di campeggi per ragazzi, organizzazione del tempo libero degli anziani,e la gran parte del tempo dei sacerdoti è sprecata nel portare avanti pratiche obsolete e inutili, come la sacramentalizzazione di massa o le messe a ripetizione per ogni occasione, la conduzione burocratica della struttura parrocchiale svuotata dello spirito vero di “charitas”. Far assumere alle comunità locali, se vogliono riprendere il vero spirito del capitolo 13 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, la dimensione dell’amore attento e disinteressato. “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. (Paolo, I Cor. 13,3). Se le diocesi e le parrocchie hanno la Caritas, anche perfettamente funzionante, ma non assumono la caratteristica della “charitas” diventano , come di fatto sono,  “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”.

Lucio Eicher Clere

domenica 2 gennaio 2011

Siamo cristiani o caporali?

Pur comprendendo l’enorme dolore che s’abbatte sulle famiglie dove un giovane muore per incidente (come è accaduto al caporale Matteo Miotto in Afghanistan), per malattia, per suicidio, i credenti nel Dio dell’amore e in Gesù Cristo nonviolento, assassinato dal potere religioso e militare uniti, hanno il dovere di discernere tra le pratiche della dedizione al prossimo e dell’altruismo e quelle della violenza e dell’uso delle armi. Putroppo nei confronti dell’esercito e della professione di soldato la Chiesa cattolica non ha la chiarezza evangelica de “il vostro parlare sia “si, si” o “no,no”, senza ambiguità e compromessi, ed assistiamo continuamente alla benedizione delle “armi buone” che vanno in giro per il mondo a “combattere il terrorismo” ed alla santificazione di ogni militare che, secondo quello che è il più normale rischio di una professione scelta e pagata profumatamente, muore per un colpo di fucile o lo scoppio di una bomba. Ameremmo sentire dai vescovi lo stesso impeto contro i soldati, di quello che essi spargono in continuazione contro chi pratica e organizza l’aborto. Vorremmo che nelle messe, organizzate spettacolarmente ad ogni rientro di una salma dai paesi dove i soldati italiani sono in missioni di guerra (spacciate per missioni di pace), si alzassero voci contro l’uso delle armi sempre e comunque, contro le folli spese militari e quelle per la produzione di armamenti. Basterebbe che il generale in pensione Angelo Bagnasco, ex vescovo castrense ora presidente della Cei, chiedesse a qualche collega i registri con i capitoli di spesa delle forze armate e poi meditasse sulle pagine delle Beatitudini. Forse potrebbe capire che non si può essere seguaci di colui che proclamava “beati i nonviolenti, beati i miti, beati i misericordiosi” e approvare lo sperpero di milioni di euro nel bilancio di uno Stato per le spese militari, cioè per la violenza e la distruzione organizzata. Nell’analisi dei dati relativi alle spese per il mantenimento delle nostre truppe in Afghanistan si scopre che “i soldi spesi sono quasi totalmente impiegati per coprire i costi dello “strumento militare”, lasciando alla cooperazione, quindi all’aiuto vero e proprio del Paese nel quale si interviene, appena il 10% dei fondi stanziati.” (M.Paolicelli, F.Vignagra, Il caro armato, ed.Altraeconomia). Il mestiere di soldato non può essere conciliabile con la sequela di Gesù. Lo affermava chiaramente Tertulliano, ancora nel 211, cioè 1800 anni fa: “Ma come si potrà combattere (bellare), anzi come si potrà fare il soldato (militare) anche in tempo di pace senza portare una spada che invece il Signore ha abolito? Da Giovanni si erano recati senza dubbio dei soldati e avevano ricevuto delle norme di comportamento; anche il centurione aveva certamente creduto, ma in seguito il Signore ha disarmato tutti i soldati, ordinando a Pietro di deporre la sua arma. Da noi cristiani non è permessa nessuna divisa e nessun comportamento che siano destinati ad atti illeciti. (Tertulliano, De Idolatria, 19, 1-3). Un tempo la leva era obbligatoria e si poteva portare a scusante che era difficile far obiettare tutti i cattolici. Ma da alcuni anni l’esercito è formato da professionisti delle armi, fra i quali non ci sono più soldati semplici, si parte dai caporali per andar su di grado e di stipendio, tant’è che il numero dei comandanti supera quello dei comandati. “Nel 2010 si prevede che il bilancio della Difesa lasci sul terreno oltre 20 miliardi di euro. L’Italia è oggi all’ottavo posto al mondo per spese militari e nei prossimi anni acquisterà con i soldi dei contribuenti 131 caccia, per la cifra di 13 miliardi di euro”. (Il caro armato, cit.). Questi sperchi di denaro fanno gridare allo sdegno nei confronti dei bisogni dell’umanità povera. Perché non c’è qualche vescovo che indichi la strada dell’abolizione delle armi come unica per potersi proclamare seguaci dei valori evangelici? E l’incompatibilità tra i gradi dell’esercito e quelli della fedeltà al vangelo di Gesù Cristo?
Lucio Eicher Clere