giovedì 9 agosto 2012

Una religione vampiresca?



Torna il tempo delle reliquie. Come nel Medioevo, irriso da Boccaccio nel Decamerone, il traffico delle sostanze organiche o degli oggetti, che hanno fatto parte della fisicità del santo di turno, vengono proposte alla venerazione del popolino ignorante, facendo credere di poter ottenere da quella semidivinità  chissà quali miracoli o grazie. Ora è il turno del personaggio più popolare degli ultimi decenni, Karol Wojtyla, papa per 27 anni, passato più volte per gli ospedali come paziente, dove qualche medico solerte o qualche suora infermiera si è premurata di mettere da parte delle fiale di sangue prelevato per le analisi, al fine di farne una reliquia da esporre e far venerare dai fedeli. La teca con il sangue di Giovanni Paolo II, che nel giorno del funerale venne acclamato “Santo subito”, e poco tempo dopo, superando la normativa del Diritto canonico, è stato proclamato beato dal suo successore Benedetto XVI, sta girando per le località più disparate dell’Europa. E’ arrivata anche a Santo Stefano di Comelico lo scorso anno e in questa estate è approdata a Lorenzago, paese di villeggiatura per diversi anni di Wojtyla.
Lo svilimento della religione di Gesù Cristo a venerazione superstiziosa di feticci e reperti macabri del corpo decomposto di un uomo, seppur degno di grande stima e imitazione per la sua testimonianza del vangelo, è una profonda amarezza per quanti continuano a credere che il cristianesimo debba essere “spirito e verità”, che “la carne e il sangue non possono entrare nel regno di Dio (1 Cor, 15,50), che “è lo spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Giov. 6,63). E invece i vertici della religione cattolica continuano a proporre gli schemi della tradizione più becera e ignorante, che mescola superstizione e fede irrazionale.
Possibile che da quel gesto simbolico di Gesù, inteso a dare il senso della coesione della comunità con lui e tra i membri, che è stata l’ultima cena, con lo spezzare del pane e la condivisione della stessa coppa del vino, si continui a far credere a bambini e adulti che prendendo la particola si mangia il corpo di Gesù e bevendo il vino si beve il suo sangue? E ancora si dà credito a quei cosiddetti miracoli, come quello di Bolsena, dove spezzando la particola un prete dubbioso ha visto uscire sangue che ha macchiato il corporale?
Ma quale fascino ha il sangue su questi uomini di religione? In una società moderna, che sa perfettamente cosa sia la sostanza organica che scorre nel corpo umano, come è possibile che ancora si propagandino reliquie come il sangue di Wojtyla, il sangue napoletano, con il trucco dello scioglimento, di San Gennaro, le stimmate sanguinolente di San Pio da Petrelcina? Ma ancora peggio le storpiature sullo stesso Gesù, di cui si venera il Sacro Cuore, il Preziosissimo Sangue, la Sindone con le ferite impresse sul lenzuolo funerario. Una religione che venera il sangue ha qualcosa di vampiresco che razionalmente respinge, non attrae per conoscerla più in profondità. Questi Dracula in veste talare si pongono mai il problema di quanto distante sia la loro proposta di religione cattolica dall’uomo contemporaneo? E non si sentono i primo responsabili dell’oscuramento dello stesso messaggio di Gesù Cristo, proprio a causa delle superfetazioni superstiziose e imbroglione che si sono accumulate nei secoli?
Avessero da leggere e meditare i grandi teologi e testimoni del secolo scorso, come Dietrich Bonhoeffer: “L’uomo può vivere mondanamente, cioè liberato dai falsi legami e dagli intralci religiosi. Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, ma significa essere uomini”. La fede come libertà da una passato di falsità e di tradimenti del messaggio di Gesù.
La fede come superamento degli schemi di oscurantismo ideologico e di contrasto con la razionalità. La fede come cammino spirituale verso la pienezza dell’amore e dell’unità con il divino.
Una Chiesa che ancora si affida alle reliquie, al sangue e altri elementi organici di cadaveri è destinata a diventare essa stessa cadavere.
Lucio Eicher Clere

domenica 29 luglio 2012

Un prete preconciliare a dirigere il seminario



A 50 anni dal Concilio Vaticano II, che tante speranze aveva fatto nascere per il cambiamento della Chiesa cattolica, il vescovo di Bellunoi-Feltre, Giuseppe Andrich, non trova di meglio, per iniziare le commemorazioni, che nominare alla direzione del seminario diocesano un sacerdote antiquato e preconciliare, tale Attilio Zanderigo Iona.
E’ probabile che nessuno trasalga né di emozione né di sdegno alla notizia. Anzi i più si chiederanno: ma esiste ancora un seminario a Belluno? Ed è giusto chiederselo, visto che da una ventina d’anni i preti sfornati da quella fabbrica sono talmente pochi, che tanto varrebbe mandarli a studiare e prepararsi altrove. Uso a proposito la parola “fabbrica”,  perché ogni volta che mi capita di parlare di “seminario”, non posso non fare riferimento a quello splendido libro che è “La fabriche dai predis”, di don Antonio Bellina, profeta della Chiesa incarnata nella cultura e lingua friulana, traduttore della Bibbia in friulano, testimone di coerenza tra fedeltà al vangelo della noviolenza e dell’antipotere e autentica umanità. In questo percorso, dagli anni della “nascita della vocazione”, agli anni dell’intruppamento nel seminario minore di Castellerio, alla formazione-deformazione ideologica nel seminario maggiore di viale Ungheria a Udine, pre Toni mette a nudo con puntigliosità mista a sarcasmo le storture di un sistema che in pochi anni è arrivato al totale fallimento. Infatti il seminario di Udine non esiste più da anni, al suo posto la sede dell’Università. “Che la fabbrica dei preti sia fallimentare - scrive don Bellina-  almeno dal punto di vista numerico, credo che nessuno possa metterlo in dubbio. Noi siamo entrati in 75 e siamo usciti in 11. Nelle classi dopo di noi, che avevano iniziato addirittura in quinta elementare, con115 ingressi sono arrivati alla fine meno di 10 e quindi anche la percentuale del 10% è da considerare un lusso”. E qui cita un dialogo tra il parroco di Cedarchis, paese della Carnia, pre Antoni Garlat e il vescovo Alfredo Battisti. “Signor vescovo –dice il parroco- si immagina una fabbrica come la Fiat che, su cento macchine prodotte, 90 sono scartate e solo 10 messe su strada? Chi si prenderebbe la responsabilità di tenere aperta e mantenere una fabbrica del genere?”. La risposta di don Bellina, che attraversa tutto il libro, è chiara e stroncante. “Finché la Chiesa si ostina a ordinare solo preti tridentini –scrive- che passano per la fabbrica del seminario e non per la strada naturale della vita di paese e di famiglia, ci si deve rassegnare a questa situazione di miseria nera, anzi di agonia. Se per la Chiesa i preti sono indispensabili e non si decide ad aprirsi ad altre prospettive, morendo il seminario muore anche lei. Per colpa sua”.
In diocesi di Belluno-Feltre, che per molti anni ha avuto come rettore del seminario l’attuale vescovo Andrich, la formazione dei preti in seminario è sempre andata avanti senza queste domande sostanziali, tant’è che la situazione sia clericale, sia ecclesiale è sotto gli occhi di tutti: un gerontocomio in veste talare e qualche pretino senza carisma e personalità sparso in giro per i paesi e fare l’impiegato della religione, cercando di giustificare alla propria coscienza e alla Curia il valore dello stipendio ricevuto a fine mese. Che l’attuale vescovo sia per gran parte responsabile della situazione fallimentare della Chiesa cattolica in diocesi di Belluno è storicamente dimostrabile. E’ stato lui, dopo l’uscita dal seminario del rettore Ottorino Pierobon, a intraprendere il cammino in retromarcia rispetto alle riforme conciliari. Le poche decine di preti usciti sotto la sua direzione sono state fornate e mandate nelle parrocchie con il compito preciso di non smuovere troppo le acque, di lasciare il quieto vivere dell’antica tradizione preconciliare, limitandosi a curare la liturgia, materia in cui si era specializzato a Roma, ma non facendo nulla che potesse cambiare lo status quo. Nessun coinvolgimento del laicato, nessuna apertura alle novità teologiche, nessun dibattito sui principi etici in dialogo con la scienza e i cambiamenti della società. I risultati dell’andrichismo sono talmente sconfortanti, che sono gli stessi preti più intelligenti e sensibili a chiedersi dove porterà la deriva e il declino della diocesi di Belluno. Una casta clericale scadente e rassegnata, da cui se ne vanno i migliori (basti pensare a don Giulio Antoniol), non è riuscita a tirar fuori dal mazzo, peraltro numeroso in rapporto alla popolazione della diocesi, uno che sia uno sacerdote aperto e critico, contestatore dell’apparato, inserito nel dibattito teologico ed ecclesiale che pure è andato avanti in questi decenni, nonostante il conservatorismo che da Roma si è espanso in ogni angolo.
Ora, anziché chiudere il seminario, luogo di inutile rifugio di una decina di preti pantofolari, ombre che vagano dalle camere ai chiostri, e di qualche unità di seminaristi, residuati del Concilio di Trento, il vescovo Andrich pensa bene di metterci alla direzione un prete che è impostato ideologicamente sull’antimodernità, dal vestire in talare al riproporre contenuti preconciliari, che sono stati la sua certezza nel condurre intere parrocchie al disinteresse e all’abbandono della pratica religiosa. Viene il dubbio che a questa gente del futuro del cristianesimo non gliene importi nulla. Che a loro interessi soltanto la conservazione della casta clericale. Perché non trasformare allora il seminario di Belluno in una casa di riposo per preti?
Lucio Eicher Clere

venerdì 27 aprile 2012

Don Tamis, l’anti Luciani



Ricordo di don Ferdinando Tamis a cent’anni dalla nascita. Ricordo di pomeriggi e serate in una stanza piena di libri e documenti, dove negli ultimi anni della sua vita era stato ospitato nel Seminario di Belluno, dopo aver passato la giovinezza e la maturità ai margini, senza alcun incarico ecclesiale, fatta eccezione per l’insegnamento della religione alle scuole Medie della città. Ricordo della accoglienza affettuosa e del sorriso riconoscente verso quegli studenti che ascoltavano i suoi racconti di storia locale, le conoscenze degli archivi curiali fino ai documenti più dimenticati, i tentativi di trasmettere la passione per la ricerca e il metodo di comparazione tra la microstoria e quella scritta negli annali.
Leggendo le cronache delle cerimonie celebrative del centenario nella sua Agordo, dove giustamente gli è stata dedicata la sala della Comunità montana, istituzione che don Tamis aveva concepito e sostenuto con la sua visione comprensoriale della storia dell’Agordino, avrei pensato di trovare una parola di scusa o una richiesta di perdono pronunciata dal vescovo Giuseppe Andrich nei confronti di questo sacerdote, per le sofferenze procurategli dalla gerarchia diocesana negli anni in cui decise e attuò la sua emarginazione. E invece il canalino Andrich,  compaesano di Albino Luciani, ha seguito il classico atteggiamento ipocrita del potere, che onora e addita ad esempio dopo morti coloro che in vita ha distrutto moralmente e volutamente impedito che potessero trasmettere il loro insegnamento.
Don Ferdinando ci raccontava quando, fresco di studi giuridici fatti a Roma, era tornato a Belluno ed aveva iniziato ad insegnare diritto nei corsi di teologia. Gli studenti erano entusiasti di lui, del suo metodo, probabilmente anche perché il vecchio professore che egli aveva sostituito faceva morire di noia. Alla fine di qualche lezione lo avevano perfino applaudito. Un ingresso nel gruppo degli insegnanti di teologia che aveva dato una grande scossa di novità e di competenza. Tanto da preoccupare l’allora vicerettore del seminario, anche lui di ritorno dagli studi a Roma, il conterraneo agordino Albino Luciani. Don Tamis ci rivelava l’invidia e l’ostilità che Luciani provava nei suoi confronti e l’azione da lui messa in atto per screditarlo e metterlo in cattiva luce nei confronti dei colleghi e della dirigenza curiale. Che don Tamis non fosse un millantatore, quando raccontava i suoi successi di professore in teologia, ne avevamo prova da vari preti che in quegli anni erano stati suoi alunni. Tutti lo ricordavano con ammirazione, non sapendosi spiegare perché fosse stato allontanato e costretto in un ruolo umiliante di cappellano di una famiglia di pseudo nobiltà provinciale. Don Tamis seppe esprimere le sue doti in altri contesti e fu apprezzato come studioso e storico anche senza l’imprimatur della Curia di Belluno.
Nei nostri anni di frequentazione con lui, il suo persecutore Albino Luciani era stato nominato patriarca di Venezia e poi cardinale. Una grande cerimonia in cattedrale, con la messa presieduta dal neo patriarca, e poi un pranzo in Seminario avevano festeggiato l’evento in terra bellunese. Don Tamis, che non aveva mai perdonato il rivale, così abile nel fare carriera dentro all’istituzione cattolica, inghiottì il boccone amaro. E noi, con crudele senso di provocazione, una sera in cui ci raccontava di avere in un cassetto un dossier “delle malefatte di Luciani”, quando era il Vicario generale della diocesi di Belluno, gli prospettammo l’ipotesi che potesse diventare papa. “No, sai, lo Spirito Santo non lo permetterà”, ci rispose scuotendo la testa con il suo tipico sorriso. Quando Albino Luciani, dopo 33 giorni di papato, morì, mi ricordai di quella frase, in un certo senso profetica, di don Ferdinando.
Chissà che fine avrà fatto quella cartella con i documenti relativi alle “malefatte” di Albino Luciani, che, non ho dubbi, don Tamis avesse custodito con cura. La “mano lesta” dei curiali avrà fatto pulizia e bruciato ogni carta che possa macchiare la memoria del futuro “san Giovanni Paolo I”. Ma non fosse altro che per risarcimento alla memoria di un perseguitato ed emarginato prete di grande valore, come è stato don Ferdinando Tamis, la causa di beatificazione di Luciani dovrebbe fermarsi e riposare in pace.
Lucio Eicher Clere

lunedì 16 aprile 2012

Tre ragazze coraggiose e un parroco opportunista

 


Nella società dell’immagine e delle notizie eccentriche da incorniciare su giornali e programmi televisivi, capita  che nel paese di Santo Stefano di Cadore si abbia l’attenzione mediatica nazionale per fatti e persone che in altre località sarebbero passate nel silenzio della normalità. Protagonisti di articoli e programmi televisivi tre ragazze, che hanno contratto matrimonio civile con tre africani, giunti lo scorso anno assieme alle migliaia di profughi dalla Libia, e il parroco dello stesso paese, che regala 500 euro a tutti i nuovi nati, sia figli di maritati in chiesa che di conviventi.
Se viste dal  lato della originalità mediatica, entrambe le notizie suscitano curiosità ed attenzione, ma volendo approfondire gli argomenti ed i protagonisti, è giusto rimarcare la grande differenza di contenuto e di significato cristiano tra i due comportamenti.
Quel parroco, che si prende meriti e vanagloria mediatica per una azione comune ad altri enti limitrofi, come Comuni e Regole, che tentano di incentivare la ripresa demografica in paesi inesorabilmente destinati all’estinzione, ritiene, bontà sua, che i bambini siano tutti uguali, senza distinzione tra battezzati e non, tra bianchi e neri, tra figli di sposati o conviventi. Ben arrivato, reverendo, dopo secoli di discriminazioni eretiche tra bambini morti col battesimo e spediti in paradiso, e altri senza, cacciati nel cosiddetto “Limbo (una sorta di inferno nebbioso)” per l’eternità. Ben arrivato, dopo secoli di “extra ecclesia nulla salus” e di “anathema sit” proclamati contro chi non si adeguava ai dettami di “Santa Romana Chiesa”.
Ma sarebbe il minimo pretender la giusta coerenza da questi preti esibizionisti, che sfruttano le occasioni di normale attività parrocchiale per mettersi in mostra e magari ottenere qualche promozione. Come si comporta il reverendo di Santo Stefano con le persone divorziate, che vorrebbero accostarsi ai sacramenti? Anche verso questi usa il metodo della non discriminazione?
Come si è comportato quando sono arrivati i profughi dall’Africa e avevano bisogno di un alloggio per essere ospitati per diversi mesi? Ha egli forse messo a disposizione le canoniche e le case vuote delle parrocchie del Comelico per questa emergenza umanitaria? E quando la canea razzista dei suoi parrocchiani, molti dei quali vanno in pellegrinaggio a piedi con lui al santuario di Maria Luggau, si esprimeva con linguaggio sprezzante e denigratorio nei confronti dei neri e di chi si prodigava per loro, ha forse il reverendo preso posizione, difendendo i deboli e condannando gli atteggiamenti anticristiani dei suoi “fedeli”? Per questo tipo di preti viene spontaneo rileggere le parole di Gesù, al capitolo 6, versetto 1, del vangelo di Matteo: “Guardatevi dal praticare le vostre opere buone davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli”.
La scelta delle tre ragazze di sposare civilmente tre profughi africani rientra invece in quei grandi gesti di altruismo disinteressato, che rendono bella l’umanità e mettono in pratica gli insegnamenti di Gesù, al di là del fatto che siano compiuti da credenti o atei. Chi ha seguito le vicende legate all’arrivo dei profughi dalla Libia tra le montagne del Comelico, la dedizione di tanti volontari per farli sentire ben accolti in una comunità, la resistenza aperta e coraggiosa contro la volontà di respingimento che caratterizzava adulti e giovani (tanto che su facebook si leggevano espressioni come “i negri gettiamoli nel Piave”), la gioia di aprirsi a culture diverse e scoprire la possibilità dell’innamoramento, l’integrazione cercata in attività e lavori in paese, sa che l’esito di una convivenza e di una apertura all’amore senza pregiudizi è stato l’esito felice e accettato con il carico di incognite di un cammino di alcuni mesi davvero ricco e sorprendente. Ma la scelta delle ragazze di sposarsi civilmente, con un contratto che estende la loro dignità ed i loro diritti di cittadine italiane a tre ragazzi senza permesso, senza speranza di integrazione, senza prospettive di sicurezza per il futuro, è un gesto di altruismo disinteressato che va oltre l’ammirazione e le pone come esempio di vera “carità cristiana”. Molti benpensanti, pur se cattoloici e aperti di idee, hanno giudicato rischioso e irresponsabile il matrimonio tra persone di razza e cultura diversa. Avrebbero consigliato la convivenza, finchè dura. Come ormai si ragiona per qualsiasi coppia di figli nostrani. Invece le tre ragazze hanno donato i loro privilegi dentro a un contratto civile che non offre loro nulla in cambio, privilegiando l’amore alla tranquillità.
Se dovessi scegliere tra quale dei due episodi di cronaca definire come autenticamente cristiano, non avrei dubbi nello scegliere il matrimonio civile e  non l’esibizionismo opportunista della carità pretesca.

Lucio Eicher Clere

venerdì 6 aprile 2012

Il ridicolo digiuno dei cattolici

 


Venerdì Santo. Un giorno di memoria intensa per i credenti in Gesù Cristo.
Spazi interiori da cercare, al di là dei formalismi liturgici stantii e poco capiti; al di là dei segni esteriori contrari, come quelli della gerarchia celebrante in sontuose basiliche, con abiti dorati, accudienti teatranti, a predicare “Gesù Cristo che spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.
Quanto si è allontanata la Chiesa cattolica dalla vita e dell’insegnamento del suo fondatore!
Venerdì Santo. La vittoria del potere religioso e politico sul profeta non violento e ideatore di una comunità di povertà e fraternità; l’abbandono e la sconfitta personale e di gruppo; la sofferenza, la tortura, la morte.
Bisogna andarsene dalle chiese, dal trionfalismo romano, dal potere ecclesiastico costruito nei secoli in Occidente, per cercare ancora l’uomo-Gesù umiliato, affamato, despositario di quelle beatitudini che ne fanno il solo possibile seguace del messaggio evangelico.
Beate le comunità cristiane senza soldi, senza potere, sperdute in periferie senza le luci dell’illusorietà, che almeno loro potranno vivere con coerenza il ricordo della passione e morte del Signore.
In questa società sazia e incerta solo sulla dieta più efficace per recuperare la forma fisica per le vacanze al mare, qualcuno osa ancora proporre la pratica del digiuno quaresimale ed in particolare nella giornata di venerdì, con il culmine nel venerdì prima della pasqua.
Ma come sono incapaci di essere coerenti in altri aspetti della sequela di Gesù, così i dirigenti ecclesistici cattolici diventano ridicoli quando propongono ai fedeli di digiunare.
“Digiuno –diceva il prete della mia parrocchia- vuol dire bere soltanto caffè al mattino, un pasto abbondante a mezzogiorno e una cena leggera alla sera”.
Senza voler ricordare quel grottesco “precetto”, che imponeva alla gente povera delle nostre montagne e pianure di “non mangiar carne di venerdì e negli altri giorni proibiti”. Loro la carne non la mangiavano neanche nei giorni di sagra e il precetto offriva ai ricchi l’alternativa del menù di pesce, più gustoso e digeribile.
Eppure altre religioni, come quella ebraica e quella islamica, senza andare lontano nelle pratiche ascetiche induiste, hanno sempre mantenuto rigorosa la pratica del digiuno e della scelta dei cibi con significato religioso. Come non ammirare le migliaia di mussulmani che vivono in Italia, anche i giovani venditori ambulanti che non si vergognano di seguire le pratiche dei famigliari, che osservano con precisione le norme alimentari e durante il mese del Ramadan non toccano cibo e acqua e arrivano sfiniti dopo una giornata di lavoro a prendere cibo nelle ore notturne, come prescrive il Corano?
Così come il digiuno, tutte le altre pratiche esteriori degli aderenti alla Chiesa cattolica appaiono inadeguate al messaggio di Gesù.
Quale povertà si pratica nelle comunità crisitane, anche nei Movimenti di maggiore formazione e convinzione interna?
Quale fraternità, se tutti i ruoli ministeriali sono previsti per le carriere maschili di soldatini obbedienti?
Quale distacco dagli affanni per il domani, se la Struttura gerarchica è preoccupata soprattutto di salvare se stessa?
Venerdì santo. Voglia di autencità cristiana, che lo Spirito faccia rinascere fuori dai recinti dei detentori-traditori della Verità, Via, Vita.

Lucio Eicher Clere

domenica 8 gennaio 2012

La diocesi di Belluno tollera l’evasione fiscale

Il clamore mediatico con cui è stata seguita la vicenda di un controllo degli ispettori della Guardia di Finanza negli esercizi commerciali di Cortina d’Ampezzo e sulle automobili di lusso di proprietari poco abbienti, in una giornata di fine anno, ha trovato un corrispettivo e significativo silenzio da parte dei dirigenti della diocesi di Belluno.  Tra i numerosi commenti registrati ci saremmo aspettati la voce del parroco-decano e quella di suo zio vescovo di Belluno per stigmatizzare comportamenti etici peccaminosi per gli aderenti alla chiesa cattolica e sicuramente illegali per i cittadini di una comunità che vuole l’equità. Invece abbiamo dovuto leggere un commento del vescovo di Vicenza, che con Cortina e dintorni non ha responsabilità di “cura del gregge”, mentre per i responsabili del clero bellunese questa occasione è passata sotto silenzio e indifferenza. Per scomodare il quieto vivere del parroco di Cortina si è andati a riesumare una dichiarazione di mesi precedenti, dove il sacerdote dichiarava che anche a Cortina esiste la povertà ed egli (smentendo la massima evangelica che raccomanda “non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra”) faceva sapere tramite giornali e interviste radiofoniche che la parrocchia aveva aiutato questi poveracci con un contributo economico. Parlare dei poveri di Cortina ed ignorare l’evasione fiscale è stata la strategia con cui i dirigenti della Chiesa bellunese si sono defilati da un argomento che sicuramente li chiama in causa, perché loro stessi sono in condizione di peccaminosità e connivenza con il sistema di evasione fiscale.
Infatti cos’è se non questo il privilegio di non pagare le tasse su edifici di proprietà della diocesi, dove si svolgono attività commerciali? Nella sola città di Belluno la diocesi è proprietaria di numerose unità immobiliari, alcune delle quali contengono attività di ristorazione e ospitalità alberghiera, altre appartamenti affittati. Ma se si andasse a controllare altre località turistiche montane e balneari, molte altre attività pseudo-assistenziali risulterebbero produttrici di reddito esentasse per le casse della Curia. I privilegiati dal sistema concordatario, che hanno ottenuto a più riprese facilitazioni nelle loro attività di lucro, sono comprensivi nei confronti dei “poveri” commercianti e vacanzieri in appartamenti di lusso a Cortina. Come loro infatti non vorrebbero essere disturbati da critiche ingenerose che reclamano giustizia fiscale ed eliminazione di privilegi. Predicare la povertà per gli altri, ma per se stessi e le istituzioni conservare ricchezze e potere. E’ questo lo stile di vita della gerarchia cattolica italiana, dal centro di Roma alle diocesi più sperdute della periferia, come è quella di Belluno.
Un collega del parroco-decano di Cortina ha scritto che la scelta di nominarlo in quel paese, lui ladino di Canale d’Agordo nella terra dei Ladini ex asburgici, è stata improvvida, perché solo i preti della diocesi di Bressanone saprebbero andare d’accordo con gli ampezzani. Fossero queste le anomalie di una presenza sacerdotale nel regno dolomitico dell’ipocrisia e della ricchezza! Quello che andrebbe rimproverato al parroco di Cortina è il suo silenzio contro le anomalie che si riscontrano tra i parrocchiani e gli ostentatori di ricchezza che vengono a Cortina. Un ministro della comunità cristiana deve essere testimone della vita povera condotta da Gesù e profetico predicatore contro la ricchezza e la sua idolatria a cui molti frequentatori delle messe sono votati. Invece il decano e lo zio vescovo hanno preferito tacere, magari per non scontentare gli albergatori e i “poveri” commercianti vessati dai controllori del fisco, preoccupati che i ricchi evasori fiscali, come molti di loro, non scelgano più Cortina per strusciarsi tra di loro in barba alla crisi ed alle difficoltà e sofferenze della gran parte dei cittadini italiani.
Una diocesi turistica, senza credibilità evangelica.
Lucio Eicher Clere