domenica 25 dicembre 2011

Il potere vaticano non si convertirà mai al Natale?

Il Natale è la festa dell’ipocrisia per eccellenza. Se penso da credente a quello che rappresenta simbolicamente il racconto di Luca o Matteo sulla nascita di Gesù, l’incarnazione di Dio nella carne di un bambino che esce dall’utero di una ragazza di Nazareth di nome Maria, urlando il suo saluto inconscio alla vita umana, non nella ricchezza di un palazzo dell’impero romano, bensì nella povertà di una famiglia ebrea in viaggio verso il paese d’origine, alloggiata in condizioni precarie in un rifugio di pastori, e lo confronto con le condizioni di benessere e svuotamento di ideali in cui il capitalismo ha portato gran parte del Nord del mondo, non posso che vergognarmi di come la stessa Chiesa abbia tradito il suo fondatore e Signore.
Sentire in questi giorni le prediche del papa, dei cardinali, dei vescovi bardati con i più lussuosi paramenti, in chiese sfarzose di decorazioni e opere d’arte, dall’alto dei loro privilegi e della loro sicurezza, che parlano del Dio povero e perseguitato è uno schiaffo all’intelligenza ed alla coerenza di tanti seguaci di Gesù che davvero la povertà la vivono o per condizione oggettiva, come i milioni di uomini, donne, bambini del Sud del mondo, o per scelta vera, come tanti testimoni della volontà del loro Signore di “servire un solo padrone” o di amare, come diceva  Francesco d’Assisi, “madonna povertà”.
Forse mai come in questi tempi emerge la contraddizione di una gerarchia cattolica non credibile da parte degli stessi fedeli. Quanti cattolici italiani, infatti, di fronte alla crisi economica ed alle varie manovre succedutesi nell’anno 2011, hanno ritenuto immorale l’atteggiamento del potere vaticano che si trincera dietro i privilegi concessi dalla legge per non pagare le tasse allo Stato italiano? Quanto spiacevole è, anche per  i cristiani critici come siamo tanti di noi, vedere l’assoluta incoerenza di una casta clericale che non vuole mettere in discussione nessuno dei suoi privilegi, mantenendo se stessa con l’otto per mille, incassando milioni di euro a nero con la coltivazione della superstizione miracolistica dei “santuari” mariani o dei santi dispensatori di grazie, usando con spregiudicatezza i giochi finanziari delle banche e delle società con sede nei paradisi fiscali; una casta clericale che non ha nemmeno il buon senso di distaccarsi dall’esercito professionale, rinunciando alle figure ivi inserite dei cappellani militari e del vescovo castrense, di fronte all’evidenza dell’inutilità delle “missioni di pace” ed alla follia delle spese militari che sconvolgono per la loro assurdità di fronte ai tagli pensionistici e agli aumenti di tasse per i redditi fissi.
Se dovessi augurare un Natale di coerenza con il messaggio di Gesù ai ministri della Chiesa che hanno la responsabilità di dirigere le comunità e di consegnare alle future generazioni di cristiani un patrimonio di fedeltà al vangelo, non potrei che esprimere desideri illusori, come le richieste di qualche bambino delle regioni più sofferenti del pianeta al mitico “babbo natale”. Cosa chiedere infatti a un papa come Benedetto XVI che va in Africa a fare raduni oceanici, anziché vivere qualche mese nelle stesse condizioni dei preti e laici che condividono la vita delle comunità cristiane? Cosa chiedere a cardinali che vivono nel lusso e nel potere dello Stato del Vaticano, come i ricchi e i privilegiati, anziché dare testimonianza di distacco dal potere e condivisione della povertà che anche a Roma molte persone vivono? Cosa chiedere ai vescovi della varie diocesi d’Italia, che conservano i titoli nobiliari di “eccellenza o eminenza” e frequentano più assiduamente i vari potentati locali che non la povertà organizzativa e morale delle tante parrocchie ormai in agonia? Ho letto con partecipazione l’ultimo libro di Hans Kung, “Salviamo la Chiesa”.  Se il potere vaticano avesse l’umiltà di riconoscere il male che ha compiuto nei secoli contro il messaggio evangelico e l’incoerenza che ha praticato contro lo stile di vita del Signore Gesù che esso crede di rappresentare, la ricorrenza del Natale potrebbe essere lo specchio vero per una conversione. Non accadrà, ma augurarselo per un credente è paolinamente  (Rm. 4,18)“sperare contro ogni speranza”.
Lucio Eicher Clere

lunedì 28 novembre 2011

Cosa c’entra la Madonna con i Carabinieri?


Una delle tante Madonne che popolano le ricorrenze del calendario e rispondono alle molteplici esigenze di devoti mariani è quella chiamata “Virgo Fidelis”, che i carabinieri considerano loro protettrice.
Pensare che Maria di Nazareth, inseguita dai “carabinieri” di Erode e costretta a rifugiarsi come profuga clandestina in Egitto, sia stata collocata come icona della Fedeltà al Potere, che sarebbe il motto di un corpo di polizia appartenente all’esercito italiano, è uno dei tanti scandali di cui la Chiesa cattolica non riesce a liberarsi.
Anche quelli che non recitano il rosario conoscono gli appellativi laudatori contenuti nella serie di invocazioni delle cosiddette “litanie lauretane”, a cui segue la risposta corale “ora pro nobis”. E anche un cattolico senza pensiero critico sa che la “fedeltà”, a cui si riferisce l’invocazione “virgo fidelis”, non è certo ad un potere umano, sia esso familiare, politico o militare, bensì a Dio, alla cui chiamata Maria di Nazareth rispose con disponibilità e scelte di vita coerenti.  Pensare che la donna ebrea che recita il “magnificat”, riconoscendo a Dio la caratteristica contraria alla logica del mondo, che premia i ricchi, i potenti, i belli, i fortunati, sia scambiata per una regina che concede favori alle guardie fedeli del potere di turno è blasfemo.  Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Perché non liberare Maria di Nazareth dalle tante confusioni a cui l’hanno legata i poteri civili, militari e religiosi nei secoli dell’Occidente cosiddetto “cristiano”?
Attribuire a Maria di Nazareth le protezioni di convenienza, ai carabinieri per la fedeltà, agli alpini per la difesa dei confini, agli aviatori per l’assunzione in cielo, a ogni  miracolato la specialistica di settore, per cui i santuari diventano luoghi di attrazione di cercatori di “grazie di genere”, è un modo offensivo di stravolgere la fedeltà di Maria al disegno divino compiutosi in suo figlio Gesù.
Conservando il culto mariano nelle modalità in cui si è costruito nei secoli e continua a proporsi per interessi anche economici, si favorisce la superstizione, il miscuglio sincretico di paganesimo e creduloneria che ha caratterizzato tanta parte della religiosità popolare.  Ma ora che la religione è diventata estranea alla vita della gran parte delle persone, perché non liberare Maria di Nazareth dai fardelli di superstizione di cui l’hanno rivestita, ridonandole il suo vero volto di donna, madre e testimone fedele del messaggio evangelico?
Liberare i carabinieri dal pensiero di avere una “Virgo Fidelis”, lasciandoli alle più apprezzate “virgines formosae” che appaiono sugli schermi dei loro computer, quando navigano in Internet, così come liberare tutti i superstiziosi della “Regina del Cielo” che si dedica a passeggiate in angoli della terra per apparire a qualche sempliciotto, sarebbe un importante compito della Chiesa cattolica, colpevole di aver tradito “l’umiltà della serva” in nome di una divinità femminile da affiancare alla Trinità maschile.
I veri imitatori di Maria di Nazareth non sono quelli che la adorano nella sua Immacolatezza e Regalità, quelli che ascoltano le baggianate di Radio Maria, con annessi messaggi di Medjugorie, ma quanti tentano di seguirne l’umile sequela del messaggio di Gesù.
Lucio Eicher Clere

venerdì 30 settembre 2011

Generale Angelo Bagnasco, corregga le sue abitudini e stili di vita!


Dopo anni di connivente silenzio riguardo alle abitudini ed allo stile di vita del capo del Governo italiano, Silvio Berlusconi, buon ultimo, dopo la diffusa condanna internazionale, è arrivato anche il richiamo del presidente dei vescovi italiani, nonché generale di Corpo d’armata in pensione dell’esercito italiano, Angelo Bagnasco. Non che si sia lanciato in duri anatemi, come hanno sempre fatto i suoi predecessori dei secoli passati contro peccatori ed eretici, scatenando i quaresimalisti  a raccontare le pene dell’inferno che li avrebbero puniti. No, la gerarchia cattolica italiana usa sempre il linguaggio felpato e generico della diplomazia vaticana, abituata a parlare il linguaggio del potere e della convenienza. In tutti gli anni dello scempio berlusconiano, che ha ridotto la società italiana come ormai è inevitabile constatare, i dirigenti ecclesiastici non hanno mai parlato contro quel personaggio che ha favorito e praticato l’illegalità e ogni deriva morale, anzi hanno esplicitamente sostenuto il suo partito e le sue promesse da mercante, in cambio dei privilegi e dei favori.
Ora il presidente della Cei fa esplicito riferimento ai comportamenti dei politici invitandoli a “correggere abitudini e stili di vita”. Meglio tardi che mai. Ma purtroppo risuonano vuote le sue parole, perché sembrano dette quando tutto ormai è finito e si avvicina un cambiamento di partiti e persone nella politica italiana. Quasi una prenotazione a ricevere favori dai prossimi governanti.
Quanto sarebbe opportuno, invece, che le parole dei vescovi fossero coerenti con il loro stile di vita e con quello della Chiesa che essi dirigono. Comportamenti e stili di vita in questa situazione di crisi internazionale, dove la povertà e l’immigrazione giungono in occidente con ondate di profughi, ma le difficoltà si fanno sentire anche in tante famiglie del Nord del mondo, comporterebbero gesti di coerenza evangelica, come la rinuncia ai privilegi delle agevolazioni fiscali per le attività e gli edifici di proprietà del Vaticano e della varie diocesi; come il volontario rifiuto di quella quota dell’otto per mille prelevato anche dai redditi di chi non firma per la Chiesa cattolica; come l’abolizione di ogni spreco e sfarzo nei viaggi papali, tutta forma esteriore e nessuna sostanza di cambiamento. Perché il vescovo di Roma, quando esprime “dolore e condivisione” (ci mancherebbe che esprimesse gioia e indifferenza!) per le tragedie e la sofferenza dei poveri nel Sud del mondo è una campana stonata? Andasse per qualche settimana in Somalia, a condividere con i cristiani che patiscono la carestia in quel martoriato paese, vivendo nelle condizioni in cui alloggiano, mangiano, lavorano i missionari o i sacerdoti locali, organizzando in loco i soccorsi e sensibilizzando da lì le coscienze dei cristiani europei e americani, allora sì le sue parole risuonerebbero convincenti, perché legate ai gesti concreti. Le parole dei gerarchi cattolici invece non hanno riscontro, perché dette da incoerenti. Come fa il cardinale-generale Bagnasco a richiamare i politici a “correggere gli stili di vita”, quando lui è stato parte organica dell’esercito italiano, ordinario castrense, parificato in grado e in stipendio ad un generale di Corpo d’Armata? Cambiare stile di vita per lui e le decine di preti-servi dell’istituzione di morte che è l’esercito, vorrebbe dire cancellare l’abominio di una presenza dei rappresentanti della Chiesa di Gesù Cristo dentro alle caserme, nei luoghi dove ci si prepara alla guerra, all’assassinio programmato di uomini, donne e bambini; vorrebbe dire la rinuncia allo stipendio da parte del Ministero della Difesa e la proclamazione dell’incompatibilità fra appartenenza alla comunità cristiana e la professione di soldato; la cancellazione di quella criminale eresia che è il Seminario maggiore dell’Ordinariato militare in Italia, in cui dei giovani possono prepararsi a servire l’esercito in nome di Dio come cappellani militari. Lo farà mai il cardinale-generale Bagnasco? Le probabilità che egli “corregga le sue abitudini e stili di vita” è la stessa che si può attribuire a Berlusconi. Infatti sono fatti della stessa pasta del potere.
Lucio Eicher Clere

domenica 11 settembre 2011

Non celebro l’ 11 settembre

 

L’attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001 è ricordato nel decennale come fosse stato una svolta epocale della storia contemporanea. Rievocazioni, testimonianze, immagini, palinsesti radiofonici e televisivi dedicati per giorni solo a questa vicenda. Pochi rimarcano l’esagerazione e la stortura di questo modo di commemorare un episodio sì grave, ma non certo diverso dai tanti che sono accaduti ed accadono in questo pianeta dove l’uomo usa la violenza contro i suoi simili e  l’ecosistema che lo ospita. New York è una città di qualche milione di abitanti, i morti per decesso naturale o per violenza sono sicuramente centinaia al giorno, e in quella mattina di settembre di dieci anni fa la quantità dei morti è risultata maggiore per un fatto eccezionale, come per un terremoto e per un uragano. Il senso del limite e della eccezionalità dell’evento dovrebbe contestualizzarlo in modo logico come uno dei tanti eventi dolorosi della storia umana. Come è stato, per esempio, la tragedia di Longarone nel 1963, dove in pochi minuti sono morte oltre 2000 persone ed un intero paese è stato cancellato dalla forza dell’acqua caduta dalla diga del Vaiont. Fatte le debite proporzioni, tra l’irrisoria percentuale dei morti delle torri gemelle, rispetto alla popolazione della città statunitense, e la totalità degli abitanti di Longarone, come dovrebbe essere celebrato e ricordato quell’evento in Italia e nel mondo? Purtroppo in occidente siamo trascinati nella lettura delle vicende con lo sguardo americano e siamo portati a valutare ogni fatto con la distorsione che il sistema mediatico della superpotenza economica ha imposto.
Se devo ricordare quell’episodio di dieci anni fa, la mia indignazione e lo scandalo che provo ancora di fronte alla retorica enfatica del dolore per l’evento vanno nei confronti dei capi della potenza statunitense, alla loro reazione istintiva e violenta, alle guerre scatenate in Afganistan e Iraq contro popoli che nulla avevano a che fare con la scelta distruttrice e odiosamente spettacolare di alcuni terroristi di un movimento sovranazionale come è Al Qaeda.
Non celebro l’11 settembre e registro un fastidio mentale che mi porta a tenere spente radio e televisione, a saltare in blocco paginate di quotidiani e settimanali, perché penso che quell’attentato sia stato un esempio mitologico di come i popoli ricchi possono stravolgere i fatti storici e reagire con l’istinto della violenza, allo stesso modo come reagì Polifemo nell’episodio dell’Odissea, quando, prigionieri nella caverna, Ulisse ed i suoi lo accecarono e poi riuscirono a fuggire sotto la pancia delle pecore. Il ciclope uscì e urlando cominciò a lanciare sassi in mare, come il suo omologo contemporaneo, Polifemo-Busch, provvide a scatenare l’inferno delle bombe contro le città ed i paesi dell’Afganistan e dell’Iraq.
Questo è il ricordo che celebro, l’ennesima dimostrazione occidentale dell’assurdità della guerra, della reazione più violenta contro una provocazione violenta. E mi domando cosa abbia insegnato il cristianesimo in duemila anni di presenza nella storia dell’umanità. Il messaggio di amore, di nonviolenza, di fratellanza universale, anche di amore per i nemici, che Gesù ha predicato e insegnato ai suoi discepoli ed avrebbe dovuto essere la caratteristica distintiva della comunità dei credenti che nel suo nome sono diventati Chiesa, sono stati dimenticati e stravolti nei secoli di unione tra altare e spada, tra potere religioso e politico-militare, che hanno segnanto la storia e la cultura dell’Occidente cosiddetto cristiano.
Come credente in Gesù e nel Dio dell’amore vorrei che le Chiese che a lui si richiamano non si accodino alla retorica massmediatica delle celebrazioni per l’attentato di New York, ma levino alta la voce contro la violenza delle guerre scatenate da Bush e dai suoi generali, che ancora, a dieci anni di distanza, insanguinano quelle popolazioni innocenti. Vorrei che, a nome della religione cristiana, almeno i dirigenti delle Chiese abbiano il coraggio di chiedere perdono per i morti, le distruzioni, la privazione di futuro, che le guerre immotivate dei ciclopi moderni hanno provocato nei paesi del Medio Oriente. Vorrei che si dicesse ad alta voce che i potenti delle armi sono fuori dalla comunità cristiana, che essi rappresentano la legge dell’odio, che è il contrario di quello che Gesù è venuto a portare agli uomini, vittima egli stesso dell’odio e della violenza.
E invece dovrò rassegnarmi a sentire il generale di Corpo d’armata in pensione con i soldi dell’Esercito Italiano, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana esprimere il sentito cordoglio per le vittime, condannare il terrorismo, comprendere il diritto degli Stati Uniti a difendersi, così come ha fatto centinaia di volte benedicendo i soldati in armi e definendo eroi i morti ammazzati in finte missioni di pace, quando in realtà sono invasori armati su territori altrui.

Lucio Eicher Clere

domenica 31 luglio 2011

L’ ANA cambi nome in ANP

 


Si è assistito nei mesi scorsi ad un rigurgito di adunate alpine nel Veneto, a Belluno, fin nei piccoli paesi periferici. Quasi un bisogno di affermare che gli alpini ci sono ancora, nonostante la fine della leva obbligatoria ormai da un decennio, che l’alpinità è una categoria incancellabile nella cultura montanara. Che cosa ci sia oltre alla forma di questi raduni, che in verità sono null’altro che una carnevalata, con quei ridicoli cappelli piumati, con improbabili marce di attempati panciuti, è difficile dirlo, perché dentro coesistono, in voluta contraddizione, ideali e disvalori, retorica e buone pratiche, preghiere e bestemmie, esibizione di bandiere tricolori e voti alla secessione leghista. E’ probabile che proprio questa mescolanza di contrasti riesca a mantenere viva una associazione come l’Ana, che riesce a coinvolgere tante persone e dare risposte concrete nelle situazioni di difficoltà. Gli aderenti hanno fatto il servizio militare nel cosiddetto “corpo degli alpini” e ricordano quel periodo della giovinezza con nostalgia, per le amicizie, le stramberie, qualcuno anche per interventi di protezione civile. Nessuno di loro vuole entrare nel merito della professione a cui avrebbero dovuto essere preparati nel periodo della leva militare, cioè quella di soldato, di utilizzatore di armi, di esperto nell’assassinare, all’occorrenza, i nemici, fossero essi soldati degli opposti eserciti, o anche donne e bambini. Quello, cioè, che stanno facendo i soldati professionisti dell’attuale esercito italiano, sparsi in giro per i paesi dove esistono situazioni di guerra, nelle presunte “missioni di pace”. Di questi “fratelli in armi” gli aderenti all’Ana si sentono sodali, li citano nei discorsi di retorica militaresca, piangono le loro morti in conflitto, chiamandoli eroi. In questo sono supportati dalla gerarchia ecclesiastica, che ad ogni “caduto” (li definiscono così, come se dire “ammazzato” o “morto sul lavoro” fosse disonorevole!) organizza messe solenni in basiliche romane, per la sfilata delle vanità militari, politiche e religiose davanti alle telecamere per gli effluvi di commozione del mammismo patriottico italiota. Ma proprio per la “contraddizion che lo consente”, l’Ana si proclama ente di solidarietà e volontariato, di azioni benefiche nelle situazioni di bisogno, che non solo non imbraccerebbe un fucile nemmeno per finta, ma svolge davvero azioni concrete di ammirevole efficacia.
Parlando con un amico, che si è prodigato con il gruppo alpini di cui è capo, per dare assistenza ai profughi africani fuggiti via mare dalla Libia, gli dicevo che l’Ana, associazione nazionale alpini, dovrebbe cambiare nome e chiamarsi Anp, associazione nazionale pacifisti, e così sarebbe in linea coerente con il comportamento che i suoi aderenti hanno in moltissime situazioni. Mi ha guardato con un sorriso, forse di compatimento, ma accogliendo con gratitudine le mie affermazioni di stima per il coraggio di agire in controtendenza rispetto alla vergognosa linea leghista-maroniana e alla maggioranza silenziosa dei compaesani diffidenti verso i neri.
L’ho rivisto qualche tempo dopo ad una cerimonia ufficiale, durante una messa da campo, pateticamente coperto da quel buffo copricapo, e l’ho sentito leggere la “preghiera dell’alpino” pronunciando solenne non solo la bestemmia “madre di dio can-dida come la neve”, ma soprattutto quell’incitazione all’odio contro gli stranieri “proteggi la nostra millenaria civiltà cristiana”.  Mi ha preso un senso di tristezza, perché nemmeno lui, persona intelligente, riesce a capire che gli aderenti all’Ana, uomini buoni e volonterosi, sono la foglia di fico che protegge la natura violenta dell’istituzione militare a cui essi fanno riferimento. Se l’Ana, la cui pratica è sicuramente pacifista, avesse il coraggio di prendere le distanze dall’esercito e definirsi anche nel nome “pacifista”, farebbe una scelta molto chiara nel risolvere le contraddizioni che la rendono poco credibile di fronte alla verità e all’ideale di una società dove tutti gli uomini possano vivere fraternamente, senza organizzare strutture di morte e distruzione, come sono gli eserciti e le fabbriche di armi. Se l’Ana cambiasse nome in Anp, giuro che non esiterei a mettermi in testa il cappello piumato e sfilare marciando per la pace.

Lucio Eicher Clere

domenica 26 giugno 2011

Mai più a Medjugorie

Un amico di Udine, originario di Santo Stefano, Franco Baldissarutti, ha voluto accertarsi di persona su cosa ci sia nella devozione mariana di Medjugorie. Ha aderito ad un pellegrinaggio organizzato, partecipando in corriera al viaggio di andata e ritorno e, lì nel paese dei visionari, al fenomeno dell’esaltazione religiosa attorno ad una vicenda a metà fra lo spirituale ed il superstizioso, con annessi guadagni e furberie da mercanti. Franco ha scritto un diario dei giorni di Medjugorie e la lettura di quel testo è un documento che potrebbe far riflettere quelli che conservano qualche dubbio sull’uso strumentale del miracolistico nella religione che si ispira a Gesù di Nazareth. Pubblico volentieri nello “spiritodigioele” alcune sue considerazioni, in risposta alle critiche di un compagno di viaggio, segnalando la mail di Franco per leggere il suo diario intitolato “Primo e, sicuramente, ultimo viaggio a Medjugorie”: info@francobaldissarutti.it

Quello che ho visto, sentito e riscontrato non solo mi ha deluso, ma mi ha a volte
schifato. Ho trovato un mercimonio intollerabile, una bigottaggine puerile,
un business sotto gli occhi di tutti. Della guida vorrei tralasciare ogni
commento perché è un "personaggio" che definire autocelebrante e pieno di sè
è fargli un complimento. Un finto curato d'Ars che brandiva la croce come
una clava per ingolfarci di rosari e litanie e predicozzi puerili.
La veggente un personaggio angosciante, più che spirituale, spiritato.
Lanciava baci, saluti, firmava libri, diari, fogli come una diva di
Hollyvood e ripeteva come un disco rotto senza cambiare né punti né virgole
le sue visioni. Che bisogno c'è di macerarsi anima e corpo recitando
vagonate di ave Maria, litanie e mea culpa salendo percorsi mistici creati
ad hoc per rendere più credibile una fede traballante? Se c'è un Dio lo si
può invocare ovunque, senza bisogno di intermediari e, soprattutto nel
silenzio della propria casa senza queste teatralità pagane, queste
ostentazioni plateali, queste processioni al limite del grottesco.
Anche l'inserimento nelle buste delle suppliche e pensieri alla Madonna e
consegnate (con obolo!)alla veggente perché le porga lei al suo cospetto è
puerile. Perché non parlare noi direttamente con Lei, ovunque ci trovassimo,
senza dover travalicare mari e monti e recitare belanti come pecore orazioni
preconfezionate? Non lo capirò mai. Ma quanto mi appaga il mio sano
agnosticismo!
Ci sono due possibili approcci ad ogni questione, quello fideistico, che
pretende di assumere a verità la propria posizione senza uno straccio di
prova e senza permettere alcuna confutazione e quello logico-razionale,
aperto al dibattito e che si basa sui fatti, sui dati, sui giudizi degli
studiosi più accreditati, sulla storia, ecc.
La fides senza ratio è una fede talebana, fondamentalista, fideismo
pericoloso da combattere al pari del fondamentalismo islamico.
Sulla fede cieca non si puo' discutere!
D'altronde la Chiesa ufficiale, e il vescovo di Mostar lo sottolinea, non dà
veridicità a queste apparizioni. Qualche ragione ci sarà. Eppoi
una Madonna che ringrazia i convenuti! Come se un medico ringraziasse il
paziente che è venuto a farsi visitare. E "Vi benedico con la mia
benedizione"... Forse è il caso di correggerla e dirle di omettere: "con la
mia benedizione" perché pessimo italiano non... da Madonna!
Anche il digiuno a pane ed acqua il mercoledì e venerdì erano imposti da Lei
ma nessuno l'ha rispettato! Come mai?
 Se fossi arrivato con un mezzo mio invece che con il
pullman, me ne sarei ritornato a casa il giorno dopo. E' stata una pena per
me resistere altri quattro giorni. Altri invece già smaniano per ritornarci.
Tanti mi hanno detestato peggio di un appestato (molto cristianamente...)ma
del loro giudizio non me ne importa un fico secco, anzi mi inorgoglisce
ancor di più. Fine del pellegrinaggio. Curiosità appagata. A mai più.

Franco Baldissarutti

sabato 4 giugno 2011

“Fuori dal tempio”, per confermarsi nella fede



Don Pierluigi Di Piazza,  sacerdote della comunità parrocchiale di Zugliano, in periferia di Udine,  ma soprattutto uomo e cristiano che testimonia la coerenza tra fede in Gesù di Nazareth e i comportamenti individuali e comunitari, ha pubblicato un libro, per le edizioni Laterza, intitolato “Fuori dal tempio, la Chiesa al servizio dell’umanità”. Vi ha raccolto le riflessioni di un credente, formatosi spiritualmente e umanamente negli anni del dopo Concilio Vaticano II, investito di responsabilità, forse profeticamente, da un altro sacerdote originario della Carnia, don Toni Bellina, già all’inizio della sua scelta di mettersi a servizio della comunità come prete. Infatti don Bellina, “mahatma”, grande anima della friulanità che forse non esiste più, traduttore della Bibbia in friulano, prete controcorrente, aveva individuato in Pierluigi Di Piazza un interlocutore a cui suggerire la strada da percorrere come sacerdote fedele al vangelo. Innanzitutto gli spiegava che ce ne sono due comode: “non mettersi contro nessuno, fare funzioni religiose, dottrina…lasciare che la povera gente vada per la sua strada, poi ti chiameranno per il funerale. L’altra è quella di fregarsene della gente e mettersi dalla parte dei potenti: avrai soldi amici, ti faranno monsignore…avrai il potere di trovarti molto bene in questo mondo”. Ma don Bellina gli diceva qual è la strada consigliata: “Quella della verità, presentandoti come sei, devi dare una mano al popolo a liberarsi da tutte le catene che lo tengono prigioniero. Devi farlo crescere nella libertà, camminando davanti a lui verso la terra promessa. Se scegli questa strada ti troverai contro il vescovo, i preti, i politici, i padroni, i bigotti, forse anche i tuoi amici”. Don Pierluigi ha sicuramente seguito la terza via suggerita dal suo conterraneo, morto da alcuni anni a Basagliapenta.
Non è un prete barricadero, anche se è presente alle manifestazioni in difesa della dignità umana in tante piazze del Friuli e in altre località italiane, dove grida dai microfoni la critica contro il potere leghista-berlusconiano, che ha diffuso nella società del Nordest l’orgoglio del benessere come ideale, la diffidenza verso l’altro, l’oblio delle condizioni di povertà e insicurezza che hanno segnato generazioni di friulani e veneti, la dipendenza dall’effimero televisivo che ha invaso la quotidianità.
Non è un prete antiistituzionale, giacché ha svolto e svolge il suo incarico di responsabile parrocchiale, incardinato nella diocesi di Udine, senza trascurare nessuna delle mansioni che si è impegnato col suo vescovo a portare avanti a servizio della comunità: da quella richieste dalla routine di impiegato del sacro, battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, funerali, alla animazione della vita parrocchiale con gruppi, catechismo, incontri formativi.
Nessuno lo rimprovera di trascuratezza, altrimenti tra il beghinismo conservatore e il conformismo cattolico benpensante ci sarebbe stata la processione per andare dal vescovo a chiedere la sua rimozione per inadempienza ai doveri ecclesiastici.
Non risulta che abbia avuto qualche tresca nascosta di tipo omo o eterosessuale, benchè egli riveli nei suoi scritti e nelle sue testimonianze la difficoltà a vivere la scelta celibataria, perché l’affettività e la sessualità sono un dono dell’amore di Dio agli uomini e rinunciarvi per imposizione è un’oppressione antiumana.
Non è un superbo o vanaglorioso, anzi la sua timidezza e la sua disponibilità all’ascolto di chi è più preparato ed esperto, caratterizzano la sua persona di fragilità e di ricerca.
Proprio per la “normalità” di prete, don Pierluigi ha l’autorevolezza e il carisma per raccontare ai tanti che lo conoscono e lo stimano, che si può e si deve vivere la vita cristiana “fuori dal tempio”. Gli spazi che egli ha contaminato nell’area di Zugliano, dove generazioni di cristiani hanno vissuto a loro modo e nel loro tempo la fede in Gesù, ha unito chiesa e campanile con case di accoglienza e di servizio ai bisogni dell’umanità povera e senza futuro, liturgia cattolica con preghiera islamica e buddista, incontri di culture e idealità diverse, senza la presunzione di possedere la verità.
Nel suo libro don Pierluigi racconta queste esperienze e riesce a far capire anche a quanti non avessero avuto modo di passare qualche ora nel Centro Balducci, che qui la Chiesa è incarnata dentro alla vita degli uomini, come dovrebbe essere una comunità che si richiama a Gesù di Nazareth. Per chi ritiene che la religione sia un fatto privato o una ritualità da compiere dentro alle mura dei templi, una messa, come quella che ho avuto la felicità spirituale di vivere il giorno di Pentecoste dello scorso anno nella sala del Centro Balducci, sarebbe giudicata irriverente. Infatti si è passati dalle testimonianze di malati di mente e operatori ( per me vero offertorio di esistenze impastate di dolore e fatica) alle parole della memoria della cena: “prese il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse… prese il calice del vino e disse…”. Ho fatto la comunione quel giorno perché mi sono sentito in comunione con la Chiesa che cammina nella storia dell’umanità e che si lascia guidare dallo Spirito più che dalle convenienze, dalle esigenze strutturali, dall’ubbidienza al potere gerarchico.
Lucio Eicher Clere

mercoledì 25 maggio 2011

"Med-jugorie e med-gramaze”


C’è grande fervore di pellegrinaggi verso la località dell’Erzegovina chiamata Medjugorie, dove da vent’anni alcune persone del luogo avrebbero visioni della Madonna. In particolare dal Nordest, territorio relativamente vicino, giacché si possono percorrere i chilometri in pullman, schiere di devoti si susseguono nella visita e nello stupore di accostare qualcosa di misterioso e di ultraterreno. Le confraternite di Medjugorie ormai non si contano più; gli ascoltatori di Radio Maria, che diffonde i messaggi che i veggenti trascrivono, sono numerosissimi; la curiosità per questo nuovo santuario mariano, dove ogni tanto ci scappa il miracolo, attira anche molti miscredenti e favorisce le cosiddette “conversioni”. Non ho alcuna prevenzione verso le estasi mistiche e le “visioni”. Anzi credo che queste esperienze facciano parte della storia di tutte le religioni nella storia dell’umanità e meritino il rispetto nei confronti di coloro che raccontano una particolare esperienza del divino nella loro mente e nei loro occhi. Altrimenti come collocare la fede in Gesù risorto, che si basa sulle testimonianze delle donne e degli uomini che avevano condiviso con lui l’ultima parte della sua vita terrena e che fondarono la chiesa di Cristo diffondendo il suo messaggio proprio sulla certezza che alcuni avevano visto il Signore risorto? “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto”. (Paolo, ICor, 15,3-8).
Le visioni della Madonna, tuttavia, da Bernardette di Lourdes, ai tre piccoli pastori di Fatima, ad altre meno famose, ma ugualmente seguite da folle di seguaci del miracolistico, non mi convincono per la semplicioneria con cui i protagonisti raccontano queste visioni. Che cosa avrà voluto comunicare Bernardette di Lourdes parlando della “immacolata concezione” di Maria di Nazareth? Forse che Dio era troppo schizzinoso e non si sarebbe mai incarnato in un utero contaminato dal peccato originale? E cosa avranno visto in quelle fiamme dell’inferno i tre di Fatima, la sete di vendetta di un Dio senza amore? Anche i veggenti di Medjugorie raccontano le parole che quella “bella signora” che essi vedono ogni giorno direbbe loro perché le trasmettano a tutti i loro seguaci. Ma è proprio nella banalità ripetitiva delle parole che si possono leggere su vari siti internet o ascoltare scandite a radio Maria da una voce recitante, che sembra debba rivelare l’al di là come una sibilla, che risulta difficile pensare che Maria di Nazareth, la madre di Gesù, la credente che ricevette lo Spirito Santo assieme agli apostoli nel giorno di Pentecoste, non abbia nient’altro da fare quotidianamente che fare un giro di turismo religioso sulla Terra, per dispensare consigli di ripetitiva ovvietà. Infatti i frequentatori di Medjugorie hanno poco a che fare con i primi cristiani, che ascoltavano l’annuncio della fede in Cristo risorto e cambiavano davvero vita. Nel Nordest ben poco incidono i messaggi di Medjugorie, se non nel far recitare di più il rosario, preghiera ripetitiva che non implica nemmeno lo sforzo di “pensare” il rapporto con Dio, come insegnano i salmi biblici e le preghiere di tante religioni. Per il resto i leghisti e i berlusconiani di Medjogorie continuano a respingere gli stranieri, a vivere nella ricchezza privata, a coltivare il sano egoismo familiare. Le conversioni a cui richiamano i messaggi di quella Madonna non sono certo quelle di Paolo sulla via di Damasco, ma semplicemente un po’ di più di confessioni e pater noster di penitenza, magari con l’aggiunta di sostanziose offerte al santuario o ai preti e le organizzazioni che lo pubblicizzano. E’ difficile per un frequentatore delle lettere di Paolo, del vangelo di  Giovanni, della complessità del testo biblico, pensare che la religione cristiana sia sintetizzata nei messaggi di Medjugorie. In essi c’è la semplicioneria dei devoti mariani, che hanno ridotto il cristianesimo a una mezza superstizione medioevale. Di sicuro Medjugorie non aiuta il dialogo ecumenico, in particolare con le chiese evangeliche, il cui percorso in Occidente avrebbe molto da insegnare al cattolicesimo romano. Sentire persone che tornano dal pellegrinaggio raccontando di aver visto il sole roteare e poterlo fissare perché al centro c’era un’ostia è deprimente; così come ascoltarli mentre raccontano del clima di pace e di gioia che si vive in quella località, quando al ritorno continuano a non guardare in faccia i paesani e a coltivare il clima di discordia e di egoismo che distrugge la comunità, è dimostrativo della vanità di questi entusiasmi mariani. Un amico, di battuta facile, proprio sentendo le testimonianze dei pellegrini di ritorno da Medjugorie commentava in ladino: “Iné tornade Med-jugorie e med-gramaze”, che, facendo gioco sul significato  della parola “med”, si traduce “sono tornati metà-jugorie e metà sempliciotti”.
Lucio Eicher Clere

domenica 15 maggio 2011

Il palco trionfale e i profughi rifiutati


Se ci fosse stato bisogno di una dimostrazione di come e quanto la Chiesa gerarchica sia narcisisticamente interessata a se stessa e lontana dalla radicalità evangelica, questo lo si è visto nella visita di Benedetto XVI ad Aquileia e Venezia. Un fine settimana successivo ai clamori mediatici della beatificazione di Karol Wojtyla e volutamente tenuto alto nella spettacolarità e nella esibizione della capacità mobilitatrice di masse.  Per chi conosce la situazione delle comunità parrocchiali e delle diocesi nel Nordest la contraddizione di questa “chiesa trionfante” è evidente. Parrocchie vuote e piazze oceaniche. Magari con la convinzione di qualche dirigente ecclesiale che “ci siamo ancora; siamo ancora capaci di radunare folle”. Si è speso una cifra spropositata per la coreografia al Parco di San Giuliano a Mestre: c’è chi ha detto un milione di euro, per una messa! Come molti cristiani e altri indifferenti alla fede, sono rimasto basito nel leggere queste cifre. Ma non era più logico e coerente con la realtà dimessa di questa comunità ecclesiale veneta e friulana che il papa venisse alla chetichella, celebrando messa nelle stupende basiliche di Aquileia e di San Marco, senza spendere niente? Qualcuno obietterà che le critiche agli sprechi erano state rivolte anche a Gesù, nell’episodio di Betania, quando una donna gli versò dell’unguento sul capo, sostenendo che il ricavato di quel profumo poteva essere dato ai poveri. E Gesù rispose: “I poveri li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete”. (Mc.14, 3-9)  Ma è proprio nella parole “i poveri li avete sempre con voi” che risalata la lontananza della gerarchia dal vangelo. Le parole che Benedetto XVI si è sentito di dire ad un Veneto egoista e ostile ai terroni e ai negri, sul dovere di accogliere i profughi, sono cadute nel vuoto di una folla più attenta a provare la consolazione del cuore, per il conforto della religiosità di massa, che non a tradurre in pratica il consiglio. Il papa se n’è andato, le sue parole sono volate nel vento della laguna e i cattolici benpensati e i loro “pastori”sono tornati alla pratica religiosa abitudinaria. Infatti pochi giorni dopo se n’è avuta riprova quando hanno cominciato ad arrivare in Veneto i pullman dei fuggiaschi dal Nord Africa. Il direttore della Caritas di Belluno ha declinato l’invito ad ospitarne ancora nelle strutture della diocesi (case per ferie, canoniche,  stabili di vario genere) perché ne aveva già accolti 12 (diconsi dodici!) in un appartamento di Feltre. E non solo non si è levata contro questo burocrate una voce di rimprovero, ma la dirigenza diocesana e le inutili decine di preti sparsi in giro per i paesi della provincia non si sono fatti avanti per mettere in pratica le parole evengeliche “ero pellegrino e mi avete ospitato”. Troppo impegnati a preparare prime comunioni e cresime; troppo indaffarati a completare la benedizione delle case e racimolare euro per sistemare chiese e canoniche. E i loro fedeli non sono certo più sensibili all’accoglienza dei bisognosi. Un sindaco, sicuramente interpretando il “comune sentire” della maggioranza leghistofila, ha dissuaso un albergatore, che si era dichiarato disponibile ad ospitare nel suo albergo alcune decine di profughi, dal farlo,  “perché deve tutelare la sicurezza della propria comunità”. E chissà che lui ed altri politici della stessa risma non siano stati in rappresentanza della società veneta al parco San Giuliano di Mestre o nella chiesa della Salute a Venezia. Il palco trionfale e le masse plaudenti sono soltanto un effimera verniciatura di colore su una chiesa cadente. Verrebbe da dire, pensando a Gesù, una imbiancatura su di un sepolcro. Lo abbiamo già constatato a cosa siano serviti giubilei, sinodi, adunate giovanili. Dopo l’esplosione di entusiasmo momentaneo le comunità hanno continuato  lo stanco e incoerente percorso di sempre. E con questo non si vuole disprezzare quanto di positivo e di autenticamente evangelico si sta facendo in molte parrocchie e comunità. Ma proprio perché questo è minimo e spesso delegato al volontariato non serve esibirlo con raduni spettacolari. Anch’io, insieme a tanti, dico che quel milione di euro per il trionfo papale di san Giuliano a Mestre, come altri milioni buttati via in pubblicità per l’Istituto del sostentamento del Clero, avrebbe dovuto essere dato ai poveri e a far diventare la Chiesa povera e umile, come richiede la fedeltà al vangelo.
Lucio Eicher Clere

domenica 1 maggio 2011

La macabra reliquia del sangue di Karol Wojtyla



Ricordo un pomeriggio di luglio del 1987 nel mio paese, piccolo e adagiato in pendio tra prati e boschi. Ricordo l’emozione di un incontro, tra la gente incredula, con un uomo, papa di Roma, che faceva il semplice camminatore. Ricordo come la preghiera con lui in chiesa, il canto, furono momenti di fede entusiasta, quasi che la figura di questo papa, così diverso dai suoi predecessori chiusi nelle mura del Vaticano, fosse stata l’indicazione o la materializzazione di una presenza della divinità nella vita quotidiana. La normalità divenuta eccezionalità e toccata con mano.
Cerco di confrontare l’eccitazione spirituale di quel giorno con la depressione che provo di fronte allo spettacolo della beatificazione di Karol Wojtyla in piazza San Pietro a Roma. Non che questa scena sia aliena dal metodo impresso da Giovanni Paolo II. Anzi ne è pienamente in coerenza. Questa spettacolarizzazione del potere ecclesiastico che tende a celebrare se stesso è nel medesimo filone della super esposizione mediatica voluta da Wojtyla. Il papa dei grandi viaggi, sempre immerso in folle varipinte; il papa dei mega raduni giovanili; il papa della proclamazione di oltre 2000 tra santi e beati; il papa che ha esposto la Chiesa cattolica come centro di potere morale, a cui gli altri poteri visivamante si sono genuflessi. Ma l’illusione mia e di tanti altri credenti è stata quella di vedere questa fama, questa mediaticità, tradursi in testimonianza semplice e vissuta nella vita delle persone. Come la camminata di Karol quel giorno a Costalta. Avevo sperato che da un papa-attore, uomo di mediaticità planetaria, l’evento del giubileo del 2000, cioè un appuntamento che tradizionalmente la Chiesa cattolica celebrava con grandi pellegrinaggi e afflusso di offerte verso Roma, fosse l’occasione per ripristinare davvero lo spirito del giubileo biblico, cioè la legge di Levitico 25, 8-17, che prevedeva dopo 49 anni il riposo della terra e la restituzione ai proprietari primitivi. Avevo sognato che Wojtyla chiudesse il Vaticano per un anno e si trasferisse nelle zone più povere della terra, per testimoniare di fronte all’occidente ricco ed egoista che si doveva smettere di sfruttare le risorse dei paesi sottosviluppati e che si doveva ridare all’umanità la speranza di una nuova era di giustizia e fraternità. Un gesto profetico che non solo non ci fu, ma anzi lo stesso giubileo fu una vetrina di ipocrisia, con le richieste di perdono per gli errori della Chiesa nella storia e nemmeno un atto di pacificazione interna con le componenti del cattolicesimo critico, né un avvicinamento reale alle chiese evangeliche che hanno caratterizzato con la loro testimonianza (pensiamo ad esempio ai Valdesi) una parte significativa del cristianesimo occidentale.
Con papa Wojtyla si è svilito il significato di santità. E fu proprio lui, con le sue sfornate di santi e beati di ogni categoria e zona del mondo cattolico, a far perdere il valore di eccezionalità alla figura di una persona “elevata agli onori degli altari”. A volte mi chiedo se non avesse proprio la volontà di ridimensionare la santità a “normale” condotta di vita cristiana, abbassando il livello di “alienità” che spesso figure dell’empireo dei santificati, come Antonio da Padova o Rita da Cascia o altri taumaturghi, esprimevano. Ma se anche questo fosse stato il suo intento, di certo non è passato come messaggio dentro alla Chiesa. Anzi si è continuato a tenere viva quella commistione tra fede e superstizione, che da sempre caratterizza il riconoscimento di “virtù eroiche” nel santificando. In particolare quella “necessità” di provare l’avvenuto miracolo per dimostrare l’intervento divino. Se Wojtyla avesse voluto demitizzare la santità, bisogna dire che ne è rimasto invece vittima. “Santo subito”, quel grido elevato nel giorno dei suoi funerali, è il frutto della spettacolarizzazione wojtyliana, più che non della fatica di testimoniare la fedeltà a Gesù Cristo, che nei dententori del potere è difficile da vivere in coerenza. E dopo pochi anni ecco esaudita la folla. Volutamente dimentichi delle parole di Paolo in
I Cor. 1, 22,  Ratzinger e la Curia vaticana hanno cercato e trovato il miracolo e beatificato Karol Wojtyla. Non poteva mancare la mercificazione più macabra del culto dei santi, cioè l'esibizione delle reliquie. Per il papa polacco si è provveduto a conservare due flaconi di sangue, dentro il quale si è iniettato dell’anticoagulante. Chissà che non si ripetano le sceneggiate napolentane per la liquefazione della reliquia di San Gennaro. E magari non succeda che nell’ospedale Gemelli di Roma, dove Wojtyla è stato operato nel 1981 per la pallottola sparata da Ali Agca, non si sia conservato un pezzo di intestino!
Il papa mediatico è rimasto vittima della parte superficiale del suo servizio ai vertici della Chiesa cattolica. Sicuramente di lui, della sua vita di credente autentico, saranno altri gli aspetti da valutare e apprezzare, per chi vorrà farlo e magari seguirne gli esempi. Ma se devo pensare a quale eredità sia rimasta in Italia del ventennio wojtyliano, in una giornata di spettacolo della sua beatificazione in piazza San Pietro a Roma, posso soltanto pensare allo svuotamento dei valori e della coscienza cristiana causata dal sistema della mediaticità imposta dalle televisioni del grande corruttore. Wojtyla e Berlusconi sono stati contemporanei. Molti di quelli che si esaltano per la beatificazione del papa polacco sono gli stessi che votano per il satiro di Arcore. E non è proprio un miracolo a suffragio del beato Karol.
Lucio Eicher Clere

sabato 16 aprile 2011

La Chiesa che ha smarrito la natura profetica

Ho ricevuto da Samuele De Bettin la riflessione che segue e la pubblico volentieri su Lospiritodigioele.

Il 3 settembre 2000 la Chiesa cattolica decise di additare ad esempio di virtù cristiane uno dei papi più popolari e venerati di sempre: Giovanni XXIII. Il ricordo ancora vivo del suo breve ma intenso pontificato, ridestato dalle frequenti repliche televisive dei suoi discorsi, hanno completamente oscurato il fatto che, lo stesso giorno, un altro romano pontefice veniva elevato all’onore degli altari: Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti. All’epoca la cosa mi era subito apparsa un incredibile esercizio di equilibrismo teologico-politico, al limite del grottesco! Vaticano II e Vaticano I in un fraterno abbraccio, Pacem in Terris e Sillabo, Mater et Magistra e non expedit, il papa buono e il papa re, le carezze ai bambini e le pallottole ai garibaldini. Tutto e il contrario di tutto. Supremo esercizio di relativismo teologico! Il papa che leggeva i segni dei tempi con gaudium et spes, frenato dal papa che, come la moglie di Lot, guardava indietro all’anacronistico potere temporale, le aperture alla collegialità conciliare stemperate dall’infallibilità del papa; il principio di non contraddizione mandato in soffitta, il trionfo dell’antitesi, dell’antilogia, dell’ossimoro: Protagora in gloria! Più verosimilmente la vittoria della chiesa della paura, della chiesa di Pietro prima del canto del gallo. Paura del nuovo, paura della profezia. Appare evidente come dietro a queste scelte vi siano precisi disegni di politica ecclesiastica: affidiamo pure alla venerazione popolare quel discolo di Roncalli, che ha spinto sull’acceleratore delle riforme, ma gli affianchiamo il volto arcigno di Mastai Ferretti, che saprà contenerne l’esuberanza con qualche scappellotto restauratore.
Credo proprio che il punto sia questo. Sottolineare il valore della santità, oltre a presentare una lunga serie di contraddizioni evidenti, ha portato la Chiesa a smarrire il valore e il significato della profezia. Se concediamo (sic!) che Giovanni XXIII e Pio IX siano entrambi beati, non possiamo certo dire che sono stati entrambi profeti. Non è certo possibile liquidare semplicisticamente il millenario culto dei santi, sovente così importante nella pietà popolare, ma questo non ci può esimere dalla denuncia dell’idolatria e della superstizione che questa prassi ha portato con sé. Il pontificato di Giovanni Paolo II, il papa che nella storia ha proclamato più beati e santi di chiunque altro, ha accentuato questo fenomeno. È noto come il culto dei santi e la dottrina delle indulgenze ad esso collegato sia uno dei maggiori ostacoli sulla via dell’ecumenismo. Appare molto difficile far capire ai protestanti il senso del lungo e complesso iter canonico della beatificazione, l’applicazione dei principi del diritto romano alle questioni escatologiche, la burocratizzazione dell’aldilà, fino alla contabilizzazione del miracolo, conditio sine qua non della Santità. Francamente trovo difficile farlo capire al comune buon senso. “Beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno”: ritengo che una chiesa che ha bisogno di segni tangibili, ancorché soprannaturali, sia una chiesa che, come Tommaso Apostolo, si fida poco dei fratelli, in ultima istanza si fida poco anche di Dio. In tutto ciò che ne è della profezia? Come mai di una beatificazione di Don Lorenzo Milani o di un Mons. Romero non c’è traccia? L’aver costretto l’intero apparato educativo italiano a rivedere le proprie posizioni o morire da martire per i propri fedeli non sono virtù da additare ad esempio? È proprio così grave essere degli spiriti liberi?
Una chiesa che timorosa si guarda indietro alla ricerca di sicurezze fondate su una strana alchimia di dogma fideistico e certezza scientifica, è destinata a trasformarsi in una statua di sale. Non credo che sia compito della chiesa essere ragionevole. Dire che lo Stato italiano non può accogliere tutti gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste può essere sensato e ragionevole, ma per questo abbiamo i politici, i tecnici del governo e della protezione civile, abbiamo il dibattito democratico e l’opinione pubblica. Ricordare che l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione non ammettono calcoli, sarà insensato, sarà irragionevole, ma sarà cristiano, sarà profetico. Respingere chi non rientra nella fattispecie giuridica del rifugiato per motivi politici sarà forse necessario, ma non può certo essere considerato cristiano. Fa parte semmai dei limiti della nostra natura umana, del nostro essere peccatori ed egoisti, della nostra incapacità di applicare fino in fondo il Vangelo, dell’incapacità di essere pienamente cristiani. Una chiesa che ha smarrito la propria natura profetica si limita ad essere una voce tra le altre, le sue istanze possono essere più o meno condivisibili e proprio per questo umane, troppo umane.
Rimandare a casa i cinquemila che si sono radunati per ascoltare le parole di Gesù è sicuramente ragionevole, hanno fame, i cinque pani e i due pesci a disposizione degli Apostoli non possono certo sfamarli: “Date voi stessi a loro da mangiare” è l’assurda, insensata, folle parola del profeta. La ragionevolezza umana avrebbe affamato quelle cinquemila persone, le parole del profeta hanno raccolto dodici ceste di avanzi.

Samuele De Bettin

domenica 10 aprile 2011

Vescovi, sui profughi dite qualcosa di cristiano


Nel Nordest leghista, pasciuto, egoista, fintocattolico, l’arrivo di qualche centinaio di profughi del Nord Africa è visto come un pericolo e un attentato alla sicurezza ed alla tranquillità delle città e dei paesi. L’appello di un sindaco, nel cui paese c’è una vecchia caserma dismessa, di aprire le stanze di questo stabile per dare ospitalità ai profughi, ha scatenato la reazione ostile di gran parte dei suoi cittadini, anche dei ragazzi che, con l’insegnante di religione, hanno espresso la soddisfazione di aver reagito con forza contro quella provocazione. Richiesto di un parere in merito, il direttore della Caritas della diocesi non solo non ha accolto e sostenuto l’idea del sindaco “rara avis”, ma, da buon tecnocrate della distribuzione, ha criticato la proposta sostenendo che il compito dei sindaci è dare assistenza ai propri cittadini e non creare allarmismo nella popolazione. E lo stesso burocrate dei bisognosi, sulla possibilità di aprire canoniche chiuse e case  per ferie della diocesi per ospitare i fuggiaschi dalla guerra e dalla fame, obiettava che in questo periodo i villaggi turistici della diocesi sono ormai prenotati dalle persone per le vacanze estive e quindi non si possono stravolgere i programmi. Ma, come lui, nella ricca Chiesa del Nordest, quella che si sta preparando per l’arrivo del papa, con mega assemblee e messa-spettacolo al parco di san Giuliano di Venezia, non si è levata alcuna voce di apertura e disponibilità all’accoglienza dei profughi, a cominciare dal patriarca Scola fino a giungere ai monsignori delle foranie periferiche. Ci si sarebbe aspettati che la Chiesa, che pure è in prima fila in tante situazioni di povertà, di sofferenza, di violenza, in tanti luoghi del mondo, dove la parola di Gesù si incarna in modo autentico, avesse alzato una voce forte e profetica contro i tatticismi e le ostilità che hanno caratterizzato la politica e le scelte del governo italiano nei confronti della crisi nordafricana. Invece né una presa di posizione netta contro lo scatenamento della guerra in Libia, dove gli aerei italiani bombardano e ammazzano persone inermi; né una condanna ferma del cinismo di un partito di governo, che attraverso le parole del suo capo ha rozzamente espresso il suo profondo sentire: “Föra di ball”; neppure un chiaro e dettagliato programma di ospitalità nei tanti edifici vuoti o a mezzo servizio di proprietà delle diocesi, delle parrocchie, degli enti religiosi (gran parte dei quali esentati dal pagamento dell’Ici), per gruppi o famiglie di scampati dalle zone di guerra e disperazione.
Ancora una volta emerge chiaramente la preoccupazione della gerarchia italiana, e in particolare del Nordest, acquiescente verso il potere leghista, di non apparire ostile nei confronti della destra berlusconiana, dalla quale si possono ottenere vantaggi e conservare i privilegi.
Come sarebbe confortante per chi legge il vangelo e ancora si sente toccato dalle parole di Gesù nel discorso della montagna e nel brano del giudizio finale del capitolo 25 di Matteo, o ascolta come dette a lui le parole del profeta Osea: “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os. 11,4), sentire dai responsabili delle comunità cristiane parole profetiche di condanna per i cinici che vorrebbero rimandare indietro gli emigranti che “arrivano con scarpe e indumenti firmati” (Luca Zaia, presidente della Regione Veneto) e di solidarietà per gli ultimi e rigettati; come sarebbe incoraggiante sentir predicare “qualcosa di cristiano”, anziché parole ripetitive e senza contenuti, perché vaganti nell’etere, anziché incarnate nella vita delle persone e nelle scelte coerenti con il vangelo. Nelle settimane in cui si consuma il dramma di centinaia di poveri e derubati di speranza, che si ammassano su insicuri barconi e muoiono nel mare di Sicilia, i cattolici del Nordest e i loro vescovi si stanno preparando all’inutile trionfalismo di una visita di papa Ratzinger. Non sarebbe inopportuno che meditassero sulle parole dell’Angelo alla Chiesa di Pergamo, capitolo 2 dell’Apocalisse.
Lucio Eicher Clere

domenica 20 marzo 2011

Togliere i crocefissi dalle aule per rispetto dei credenti in Gesù

La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha annullato una sentenza precedente, che stabiliva di rimuovere i crocefissi dalle aule scolastiche per rispetto degli alunni non cristiani e della distinzione tra Stato e religione, riconoscendo allo Stato italiano la facoltà di imporre per legge l’esposizione nelle aule scolastiche ed in altri luoghi pubblici dell’immagine della croce e dell’uomo Gesù. Questo simbolo, secondo la Corte europea è “irrilevante, non esercita nessun influsso sugli studenti”. Per i politici opportunisti che hanno gridato vittoria per questa sentenza, così come per i cosiddetti “atei devoti” che si interessano di religione soltanto per formalismo esteriore, questa motivazione è la conferma di un uso strumentale del simbolo della religione cristiana, utilizzata come elemento aggregativo di una tradizione europea conservatrice, e collante di pseudo valori morali ipocriti, proclamati per il perbenismo sociale e trascurati poi nella pratica dei singoli e delle famiglie. Ma per cosa possa esprimere soddisfazione il presidente della Cei, il generale di corpo d’armata in pensione Angelo Bagnasco, che ha parlato di “una sentenza importante, di grande buon senso”, non ci è dato capire. Infatti che una Corte pilatesca affermi che ogni Stato al proprio interno può comportarsi come meglio crede in tema di esibizione dei simboli religiosi, anche contro il diritto di minoranze di altre fedi che potrebbero non gradirli negli spazi pubblici laici, fa parte dell’ipocrisia del potere. Ma che la dirigenza cattolica gioisca nel sentir definire il crocefisso un simbolo indifferente è paradossale. In verità, per chi lavora nelle scuole, la constatazione che i crocefissi nelle aule siano dei simboli ignorati e non calcolati probabilmente neppure dagli insegnanti di religione, è un dato di fatto. Così come lo è, proprio negli anni delle scuole superiori post-cresima, il definitivo abbandono della pratica religiosa negli adolescenti. E’ mia abitudine da oltre 30 anni, cioè dal tempo in cui lavoro a contatto con studenti di una scuola superiore, chiedere ad ognuno se abbia fatto la cresima e se continui a frequentare la chiesa. Tutti mi rispondono che l’hanno fatta, e quasi tutti che, per loro fortuna, si sono liberati dall’obbligo di frequentare il catechismo in vista di questo, che definisco “appuntamento iniziatico alla vita scristianizzata”: il sacramento della de-confermazione. In un unico caso mi è capitato di vedere un ragazzo interessato al crocefisso di un aula. Ma a modo suo, in una forma che sarebbe stata perseguibile come oltraggio ad un simbolo della religione cattolica. Infatti questo ragazzo friulano, in preda ad una crisi emotiva, si rivolse bestemmiando verso il crocefisso, lo staccò dalla parete, ci sputò sopra e voleva spezzarlo. Anziché punirlo per il gesto, cercai di capirne le motivazioni e collegarle anche al ricordo di un messaggio religioso, dove Gesù non era la causa delle disgrazie o delle sofferenze che il ragazzo stava provando, anzi semmai il simbolo delle vittime della violenza e dell’odio.
Il crocefisso per i credenti in Gesù non può essere un’immagine indifferente. Per questo esporlo nelle aule scolastiche, nei tribunali, in altri luoghi pubblici è offensivo nei confronti della fede cristiana.
Finita l’era della civiltà contadina, dove i crocefissi erano punti di riferimento di una vita quotidiana contrassegnata dalla religione, ci eravamo abituati ad un ritiro in disparte, un ritorno nei luoghi della comunità dei credenti, dove il crocefisso parla ancora un linguaggio riconoscibile. Ma i calcoli utilitaristici di qualche politicante, in giacca e cravatta o veste talare, vuole esibirli dovunque, con la stessa irriverenza che si nota in una croce d’oro sul petto di un mafioso o di una donna che vende il suo corpo. I crocefissi non possono essere degradati a oggetti simbolici ad uso e consumo di qualche ministro in vena di esibizionismo religioso senza sostanza. Ma dovrebbero essere i vescovi e la Chiesa a ribadire le affermazioni di Paolo nella lettera ai cristiani di Corinto, “Cristo crocefisso, scandalo per i giudei, follia per i gentili”, non permettendo di considerare la croce alla stregua di una qualsiasi insegna della Padania bossiana. Per rispetto dei credenti in Gesù dovrebbe essere tolto il crocefisso dai luoghi dell’indifferenza nei suoi confronti. Sarebbe profetico che a farlo nelle scuole, durante le loro ore di lezione,  fossero gli stessi insegnanti di religione.
Lucio Eicher Clere

domenica 13 marzo 2011

La Chiesa del Nordest fra trionfalismo e indifferenza



Se c’è un territorio dove l’arretramento della pratica religiosa e della tradizione cattolica è più constatabile sia numericamente che qualitativamente, questo è il cosiddetto Nordest, una delle regioni più ricche del mondo. Quel Veneto, quel Friuli, quel Trentino che un tempo erano la culla delle vocazioni sacerdotali, fratesche e suoresche, ed erano la garanzia di totale adesione alle parrocchie, contro le tentazioni del razionalismo e del modernismo (basti pensare da dove proveniva il “campione” della lotta al modernismo, quel Papa Sarto da Riese poi santificato come Pio X), da decenni ormai sono le lande del materialismo e della spregiudicatezza morale, dove ciò che interessa è fare soldi e soddisfare i piaceri della vita. Non per nulla in queste regioni ( a parte l’isola di Trento) stravince quel partito che è la traduzione in politica dell’incultura e dell’egoismo individuale e sociale, cioè la Lega. Una generazione di spregiudicati imprenditori, che sono passati dalla economia rurale e dall’emigrazione all’artigianato e all’industria, non ha esitato nello stravolgere il proprio territorio, costruendo dappertutto case, ville, condomini, fabbriche, capannoni, consegnando alle generazioni future luoghi invivibili, ma non ha rispettato nemmeno alcuna regola morale di quel “catechismo di Pio X”, che doveva essere inculcato nella mente dei bambini perché non lo dimenticassero più fino alla vecchiaia. Il formalismo della religione, quello sì è stato rispettato. Basti pensare che a tutt’oggi, di fronte all’abbandono della pratica religiosa di nove ragazzi su dieci che fanno la cresima, tutti continuano a battezzare i figli, fargli fare la prima comunione, la cresima e, se serve per far bella scenografia, anche il matrimonio in chiesa, in attesa del funerale che sempre è il rito finale di una esistenza sotto la copertura cattolica. Ma quale è poi la pratica cristiana delle generazioni materialiste del Nordest ricco e gaudente? La pastorale dei tanti preti ancora in servizio nelle migliaia di parrocchie, dove si prosegue la routine del ritualismo liturgico e della sacramentalizzazione di massa, ha contribuito in prima battuta a far sì che lo scollamento fra vita e fedeltà al vangelo avvenisse senza traumi. L’aver proseguito a “curare le anime” come se nella società non fosse avvenuto alcun cambiamento rispetto a quando la quotidianità era scandita dalle campane e lo scorrere dei mesi dalle festività ricorrenti, ha relegato i preti nel ruolo di impiegati della religione, di organizzatori del tempo libero dei bambini e di consolatori di qualche dramma familiare o della solitudine degli anziani. La profezia che la figura di Gesù rivela in ogni parola e gesto della sua vita è totalemente assente in queste comunità cattoliche del Nordest.
Adesso le diocesi si propongono di fare una riflessione per confrontarsi pubblicamente in un grande convegno, da tenersi il prossimo anno ad Aquileia. E per “lanciare” mediaticamente questo evento hanno invitato il papa Benedetto XVI in una visita ufficiale tra Aquileia e Venezia. Anziché venire in sordina e incontrare i vescovi e quanti partecipano alla fase preparatoria del convegno, papa Ratzinger viene a Nordest nel fragore e nel trionfalismo che contraddistinguono le uscite dei papi, così come le ha rese famose papa Wojtyla. Grandi raduni, messe con folle oceaniche, costi di organizzazione enormi, che hanno richiesto la devoluzione delle offerte di tutte le parrocchie del Nordest in una domenica di febbraio, per dimostrare che la Chiesa cattolica c’è, conta e vuole rilanciarsi. Li abbiamo già visti questi grandi eventi, con convocazioni e pellegrinaggi. Basti pensare al giubileo, ai sinodi diocesani, ai raduni nazionali e mondiali dei giovani. Tutte sceneggiate senza alcun ritorno pratico nella vita delle comunità ecclesiali. Infatti dopo i giubilei, i sinodi, i raduni, tutto continua nell’indifferenza della stragrande maggioranza dei cattolici anagrafici e nella crisi di identità di una casta sacerdotale che non è capace di diventare corresponsabile assieme ai laici del ripensamento e della rinascita della fede, in coerenza con il messaggio evangelico. Nessuno all’interno della Chiesa può dire di avere in tasca le ricette del rinnovamento, poiché lo Spirito soffia dove vuole, ma se la gerarchia avesse almeno l’umiltà e il coraggio di ammettere il fallimento dei propri metodi pastorali rispetto alla vita di fede delle comunità, forse si potrebbero trovare ad Aquilei altre domande ed altri tentativi di risposta, che non siano quelle già sentite dieci anni fa con il giubileo o negli anni passati con i sinodi diocesani. Invece basta leggere lo stile “vescovese” del programma per rimanere delusi e prevedere che non ci sarà alcun cambiamento nella Chiesa del Nordest: “le diocesi individueranno le scelte pastorali necessarie per rispondere alle sfide rilevate, alle esigenze emergenti, al nuovo a cui aprirsi, ai fronti pastorali su cui avanzare insieme”. Parole vuote, a cui non seguiranno comportamenti diversi, che testimonino la ripresa di coerenza con la radicalità del Vangelo. La gerarchia continua a credere che il trionfalismo delle messe papali porti qualche frutto. Ma invece continuerà l’indifferenza a Nordest, come in tutto l’Occidente che adora Mammona.
Lucio Eicher Clere

lunedì 28 febbraio 2011

Sul Miesna l’indulgenza per gli adoratori del teschio


Sembra incredibile che a settecento anni dalle furbate di Frate Cipolla, raccontate da Boccaccio in una novella del Decameron, che conservava la reliquia di una piuma dell’angelo Gabriele;  a ridosso dei 500 anni dalla Riforma di Lutero, vento dello Spirito in Germania per cancellare il mercimonio delle indulgenze, vendute dal Papa e della Curia romana per rimpinguare la casse vuote dello Stato pontificio; a 45 anni dal Concilio Vaticano II, che aveva aperto le porte del dialogo ecumenico e quindi suggerito la rinuncia ai gesti più clamorosamente ostili verso i fratelli evangelici, ci siano ancora diocesi che ripropongono riti medioevali, come la promulgazione di un anno giubilare per ottenere l’indulgenza plenaria andando in visita in un santuario dove verrà esposto il teschio-reliquia del santo patrono.
E invece accadrà che la diocesi di Belluno-Feltre, in crisi di partecipazione di fedeli alle messe e alla pratica religiosa, in continuo arretramento della testimonianza evangelica nella società, in penosa carenza di personale dirigente, affiderà le sorti della sua “ripresa” al teschio di San Vittore, rubato ai tempi del Boccaccio dall’Imperatore Carlo IV di Boemia, e conservato a Praga nella cattedrale, che si è resa disponibile (probabilmente dietro compenso) a prestare il macabro resto per farne oggetto di culto nel santuario sul monte Miesna, dove i feltrini hanno sempre chiesto grazie ai due santi che considerano loro protettori, Vittore e Corona.
Sembra incredibile che in una società materialista e pragmatica, dove per risolvere i problemi di salute si pagano le visite specialistiche e non si pregano più santi e madonne; dove il senso del peccato è completamente scomparso, tanto che ai vertici delle istituzioni pubbliche si prende in giro la religione proclamandosi sostenitori della famiglia tradizionale nei convegni e pagando prostitute minorenni nelle notti di piacere; dove bambini e giovani non hanno alcun rapporto con la ritualità e l’insegnamento catechistico, ci sia ancora la voglia da parte dei vertici gerarchici di pescare nel pozzo profondo della superstizione, per ricavarne qualche vantaggio di presenze nello spazio del sacro e, soprattutto, offerte, che un numero sempre maggiore di cattolici anagrafici non dona più abitualmente, e quindi le occasioni straordinarie come i giubilei possono aumentare. L’abbiamo visto a san Giovanni Rotondo, con il cadavere di san Pio da Petrelcina con la faccia al silicone; lo vedremo con la riesumazione delle spoglie di papa Wojtyla, da beatificare al più presto per risanare i bilanci in rosso del Vaticano; lo vedremo con il teschio di san Vittore esposto in una teca di vetro. Una Chiesa che non sa parlare alla gente con le parole del vangelo e preferisce affidarsi alla creduloneria residuale, non certo illudendosi che questo possa far ravvivare la fiamma della fede morente, ma certa di salvare il proprio prestigio terreno e il potere che perdura su schemi e segni trionfalistici.
Verrebbe da chiedersi a quanti il vescovo Andrich e il rettore del santuario, Dalla Rosa, novelli frati Cipolla, riusciranno a far credere che, con la visita nella chiesa sul Miesna  entro l’anno giubilare e con un cospicuo lascito di euro, saranno cancellati tutti i peccati.
Soprattutto sarebbe da chiedere a loro con quale arroganza spirituale e quale eretico possesso della misericordia di Dio, spacciata dai trafficoni del Vaticano attraverso la cosiddetta “indulgenza plenaria”, presumano di perdonare i peccati dei singoli credenti, che solo davanti alla loro coscienza ed alla fede nel Dio-Amore possono ritrovare la pace interiore.
Che il giubileo del teschio di san Vittore sia soltanto una trovata pubblicitaria è evidente anche dal pieno accordo tra Comune di Feltre, associazione commercianti, agenzie turistiche e diocesi nel far fruttare al massimo il turismo religioso verso la basilica sul Miesna. In questo Andrich è un vero discepolo del vescovo Ducoli, che aveva ideato il santuario della Madonna sul Nevegal per rilanciare turisticamente il Colle di Belluno. Quel fittizio luogo di culto non richiamò le folle dalla pianura veneta, e probabilmente neppure il teschio di San Vittore smuoverà masse di fedeli creduloni.
Resta la profonda amarezza di chi vorrebbe sperare in un rinnovamento autentico della comunità dei credenti in Gesù Cristo, con la ripresa della coerenza con il vangelo ed il distacco dal denaro e dal potere.
Amarezza anche per lo sfregio alla memoria di un martire, cioè di un testimone della fede in Gesù come fu Vittore ai tempi della persecuzione da parte del potere imperiale romano, ridotto a macabro oggetto di culto. Per rispetto a lui ed alla fede autentica di generazioni di cristiani delle vallate feltrine, che sul Miesna venivano in cammino a pregare e trovare sollievo dalle fatiche di vite misere, toglierò l’immagine che avevo scelto come simbolo di questo blog, accompagnandola con la scritta del vangelo di Giovanni “è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre…”. Su questo monte Miesna per un anno si favorirà la superstiziosa adorazione di un teschio.
Lucio Eicher Clere

domenica 20 febbraio 2011

La casta dei preti che vuol bastare a se stessa



Nella diocesi di Belluno-Feltre fa discutere la crisi di alcuni sacerdoti, che per esaurimento, depressione, innamoramento, si ritirano dall’attività pastorale, o scelgono di “gettare la tonaca alle ortiche”, come si sarebbe detto in tempi in cui la tonaca la portavano tutti gli appartenenti alla gerarchia cattolica. Le spiegazioni uscite dalla dirigenza diocesana tendono a minimizzare, a farne dei casi singoli. Ma quando i numeri crescono e i problemi emergono anche in figure che non avevano mai dato segni di squilibrio, sarebbe utile che vescovo e colleghi curiali si mettessero davanti all’evidenza del disagio del mestiere di prete nella Chiesa contemporanea. Può darsi che lo facciano, anche se sarà difficile che Giuseppe Andrich, diventato vescovo dopo una carriera prettamente curiale, che lo ha visto occuparsi di organismi associativi, parrocchia in centro città, rettore del seminario, vicario generale, cioè capo della burocrazia diocesana, osi mettere in discussione la struttura che lui ha contribuito a mantenere nel vecchiume che dimostra. Di chi sono discepoli, infatti, quei pretini usciti in questi anni dal seminario, impostati mentalmente come degli impiegati della religione, preoccupati del proprio tempo libero e degli hobby più che della crescita insieme alla comunità nella coerenza al vangelo? Fa specie e forse anche un po’ di pena leggere le “soluzioni” consigliate, per superare lo stress da attività pastorale, dal monsignore arcidiacono di Agordo, Giorgio Lise, a suo tempo in predicato di diventare vescovo di Vittorio Veneto. “Il fatto di essere sotto organico è sotto gli occhi di tutti. Da qui si è espressa corale la volontà di vivere di più la fraternità sacerdotale. Io auspico confronti più frequenti. Anche una telefonata, due chiacchiere fanno sempre piacere e ci fanno essere vicendevolmente più vicini”. L’idea di far vivere i preti in comunità e di creare “zone pastorali” dove vari parroci vivano in una canonica unica la quotidianità e l’organizzazione concertata delle mansioni è stata una “pia illusione” di vari vescovi succedutisi in questa come in altre diocesi. Ma se i preti sono stati allevati e formati in seminari, dove hanno imparato a vivere la solitudine personale ed affettiva come l’esperienza più forte e decisiva per misurare la solidità della propria vocazione? Se a questi “specialisti”del sacro è stato insegnato a gestire personalmente tutta l’organizzazione parrocchiale, non delegando alcunchè ad altri, nemmeno ai cappellani, considerati fino a qualche anno fa come dei collaboratori a servizio del principale? Infatti tutte le piccole esperienze di comunità o di fraternità sacerdotale sono abortite o ipocritamente vissute con la stessa individualità a cui ogni prete preferisce adeguarsi.
E intanto le comunità cristiane diventano sempre più aggregazioni formali di cattolici abitudinari, senza entusiasmo e senza coinvolgimento progettuale da parte di tutti, prete e laici, uomini e donne.
Quale azienda, ci si potrebbe chiedere, dopo aver constatato che i propri dirigenti da anni perdono clienti e non riescono a comunicare con quelli che rimangono per abitudine, non cambierebbe strategia? La Chiesa cattolica in occidente, e soprattutto nelle zone più soddisfatte nelle esigenze materiali, ha perduto aderenti e non riesce a comunicare l’originalità e la radicalità del messaggio di Gesù. La casta sacerdotale continua nel suo modo di essere e di formare i nuovi preti senza mai coinvolgere, nella responsabilità di cambiare e costruire nuove prospettive comunitarie, i laici, senza mai discutere se il celibato libero, il sacerdozio femminile potrebbero dare un volto nuovo a una gerarchia sclerotizzata dentro a schemi e formule che nessuno capisce. Chi ama la Chiesa dovrebbe preoccuparsi del suo involversi e della sua incapacità di comunicare con i giovani, che dopo la cresima se ne vanno dalle parrocchie. Invece i preti sembrano indifferenti e preoccupati di salvare se stessi e la gerarchia. Come se le parole di Gesù “la messe è molta e gli operai sono pochi; pregate il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10, 2), fossero state dette per creare una casta di professionisti della predicazione e non una comunità di testimonianza dell’amore di Dio nel mondo.
Lucio Eicher Clere

mercoledì 9 febbraio 2011

Per l’eutanasia, cioè la buona morte



L anniversario della morte di Eluana Englaro, che tante polemiche aveva suscitato nei giorni in cui a Udine si era concluso il percorso biologico della giovane donna rimasta senza coscienza per 17 anni a seguito di un incidente stradale, ripropone il tema del fine vita, del rispetto della volontà della persona sul proseguimento o no delle cure, del cosiddetto “testamento biologico”. Vengono ancora i brividi di indignazione al ricordo del fanatismo che si era scatenato nei giorni che precedettero la morte di Eluana: le veglie con candele e bottiglie d’acqua davanti alla clinica “La Quiete”, gli appelli in tutte le Radiomarie dell’etere contro il “partito della morte”, l’irrazionale corsa contro il tempo per votare un decreto in parlamento contro la sentenza che aveva accolto il ricorso di Beppino Englaro, le frasi macabre come questa “Eluana, ti amavano tanto che ti hanno fatta morire di fame, di sete e di paura”, fino all’insulto di “assassino” ad un padre che è stato l’immagine autentica della dignità e del rispetto della volontà della figlia. E fa ancora più amarezza pensare che vescovi e cardinali, come Javier Lozano Barragan, che si sono espressi con toni di condanna nei suoi confronti, siano poi quelli che proclamano eroi ed esempi da imitare, per l’idealità e il dono di se stessi al servizio della pace, dei soldati che muoiono in azioni di guerra. “Assassino” Englaro e “benefattori” dei soldati stipendiati, cioè professionisti dell’assassinio a pagamento. Queste assurde contraddizioni fanno pensare a quanta retorica e oscuramento del pensiero ci sia attorno al grande tema della morte e delle modalità con cui ad essa ogni persona si avvicina. In questa società dove la morte è esibita come finzione virtuale per immagini, sia quella vera delle tragedie di ogni parte del mondo, che entrano attraverso televisori e computer in tutte la case, sia quella finta dei mille videogiochi dei ragazzi, che passano ore ed ore con i tasti della playstation in mano ad uccidere e massacrare nemici, la realtà della malattia terminale e della morte viene il più possibile nascosta e tenuta distante. E non potrebbe essere che così, visto i modelli vitalistici esibiti da un presidente del consiglio che a 75 anni, anziché fare penitenza di una vita da peccatore e ritirarsi in luoghi appartati, vuole dimostrare a se stesso e agli altri che il godimento non ha età e che con i soldi si può comprare salute e sesso come in una perenne giovinezza. Per la religione cristiana la morte è sempre stata al centro della riflessione teologica e della predicazione pastorale. Senza rievocare i quaresimali, dove le pene dell’inferno erano lo spauracchio di tutti gli incorreggibili peccatori, la prospettiva di una vita eterna migliore di quella terrena è stato per secoli la finalità ultima della fede in Dio. La “buona morte”, la preghiera e San Giuseppe, che la tradizione ha sempre ritenuto sia spirato tra le braccia di Maria e di Gesù, il rosario nelle case dei defunti, la messa funebre, tutto ciò è sempre stato il normale approccio della comunità cristiana e dei singoli all’appuntamento inevitabile con la fine dell’esistenza corporea. E proprio pensando a questa “normalità” della morte nella visuale cristiana, non può non stupire il cambiamento delle gerarchie cattoliche che sembrano accanirsi nella conservazione della vita materiale, come è accaduto per Eluana, ma come avviene nella divisione tra il “partito della vita”, dei quali sono i promotori, e “i sostenitori dell’eutanasia”, cioè le persone che affermano la libertà nel decidere il rifiuto delle terapie in fase terminale. Chi crede e predica la continuità della vita terrena nell’amore eterno di Dio non dovrebbe avere tanto attaccamento alla materialità. Prolungare la sopravvivenza corporea per qualche mese o anno in più è nello spirito della religione? Cosa sono i 17 anni di coma di Eluana di fronte alla pienezza della sua vita attuale in Dio? Non si riesce a capire la carica blasfema attribuita alla parola “eutanasia”, cioè buona morte. Se si ricorda il modo con cui Madre Teresa di Calcutta avvicinava i moribondi e li teneva per mano negli ultimi momenti del passaggio, si può comprendere cosa sia l’eutanasia. Madre Teresa non ha specializzato le sue suore a diventare professioniste del prolungamento della vita; non ha destinato i fondi che riceveva da tutto il mondo ad acquistare macchinari per prolungare artificialmente esistenze che, senza l’intervento medico e tecnico, si concluderebbero con l’incontro nella luce dell’amore di Dio. Più che di sostegno ai materialisti del prolungamento della vita ad ogni costo, dai cristiani dovrebbe venire l’esempio e la parola in favore della “buona morte”, cioè il rispetto della scelta di ognuno negli ultimi istanti e l’accompagnamento sereno verso una nuova vita.
Lucio Eicher Clere

mercoledì 26 gennaio 2011

L’ipocrita linguaggio “vescovese”


Tanti cattolici che si erano stupiti del silenzio della Conferenza episcopale italiana sugli scandali di Berlusconi da Arcore, dopo aver ascoltato il generale di corpo d’armata in pensione, cioè il presidente della Cei Angelo Bagnasco, all’apertura dei lavori del porporato consesso episcopale ad Ancona, si saranno detti con amarezza che sarebbe stato meglio se il silenzio fosse proseguito.  Non che sperassero nella limpidità evangelica voluta da Gesù ( “il vostro parlare sia “si” o “no”); e nemmeno si attendevano le invettive di Gesù del “Guai a voi”, di “razza di vipere”, “sepolcri imbiancati”; o del paolino “togliete il malvagio di mezzo a voi”. Ben sanno i rassegnati cattolici italiani che dalle sacre labbra dei loro vescovi ben difficilmente escono parole che risvegliano la mente e fanno ardere il cuore, come dissero i discepoli di Emmaus dopo aver cenato con uno sconosciuto la sera di pasqua: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?"(Lc 24, 32). Ben sanno i delusi cattolici italiani che le prediche e le considerazioni dei loro pastori sono stantie,  ripetitive, innocue, sterili come il vento sulla sabbia. Ben sanno i cattolici praticanti e anagrafici che la vita dei vescovi è uno scontato trascinarsi di quieta vecchiaia negli agi delle residenze episcopali, con una seriale presenza a cerimonie e riti che non hanno alcuna valenza concreta nella vita delle persone e delle comunità. Ben sanno i cattolici benestanti e benpensanti che i loro vescovi sono legati ai privilegi di potere concessi alla gerarchia italiana dal Concordato di Mussolini nel 1929 e di Craxi nel 1984 e che sono disponibili a tutti i compromessi tra potentati, anche a scapito della coerenza con il vangelo. Per questo il silenzio di fronte ai comportamenti immorali di Berlusconi sarebbe stato inquadrabile dentro a una logica utilitaristica, un calcolo in vista di future prebende e provvedimenti legislativi che assecondino appetiti e pruriti clericali. Invece il generale Bagnasco, con quella sua voce affettata e arida, ha voluto far finta di prendere le distanze da Berlusconi pronunciando frasi calcolate e diplomatiche (“squarci di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza”) come se stesse parlando di avvenimenti generici che possono capitare a chiunque. E poi ha voluto prendere le distanze anche dai magistrati che non si sono lasciati intimidire dal potente, ricco e proprietario di tutte le televisioni più viste in Italia. (“ci si chiede a cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine”). E tutti, maggioranza, minoranza a citare, a interpretare e adattarne il senso secondo la convenienza. Proprio ciò che vuole un cardinale che parla in “politichese” o “vescovese” senza far riferimento all’unica fonte della Chiesa, che è il vangelo di Gesù. L’aver evitato accuratamente di parlare della pubblica immoralità di un governante, in una realtà ecclesiale italiana dove si è diffuso il senso di ribellione e di condanna di questa peccaminosa indecenza, è un invito a proseguire con più discrezione, senza cambiare stile di vita. Il “vescovese” ipocrita di Angelo Bagnasco è coerente con il comportamento dei prelati, controtestimonianza costante della prassi e dell’insegnamento di Gesù di Nazarteh. Conforta invece i credenti in lui, il constatare quanti laici, preti e anche alcuni vescovi sappiano esprimere senza paura la condanna evangelica nei confronti di un ricco imbroglione, che vorrebbe comprarsi con le donazioni in denaro anche la vita eterna.
Lucio Eicher Clere

martedì 18 gennaio 2011

Vescovo Tettamanzi, scomunichi Berlusconi!



Lo scandaloso silenzio della Conferenza episcopale italiana nei confronti del comportamento privato e pubblico del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non può non indignare le coscienze dei cattolici praticanti, di quelli anagrafici che ancora non siano ottusi dalla televisioni di proprietà del signore di Arcore, e soprattutto dei credenti in Gesù Cristo, che ha lanciato i suoi “Guai a voi” soprattutto contro gli ipocriti e i ricchi e che ha detto inequivocabilmente a chi dà scandalo ai piccoli, ai minorenni, “sarebbe più conveniente per lui che gli fosse appesa al collo una macina da somaro e fosse affondato in alto mare” (Mt. 18,6). Tace, a volte anche in maniera complice come fanno i suoi amici preti e vescovi, quella gerarchia che nei confronti della sessualità normale delle persone normali (eterossessuali che si separano e formano una nuova coppia, omosessuali, sull’uso degli anticoncezionali e altro) esprime sempre giudizi di condanna. Tace quella gerarchia che per secoli ha investito la sfera della morale sessuale di una carica di peccaminosità così cupa e infernale da condizionare la mente e la psicologia profonda di generazioni di donne e uomini. Tace per convenienza di privilegio, di denaro e potere quella gerarchia che ha già chiuso due occhi su altri comportamenti gravissimi di Berlusconi, quali la corruzione, la complicità con mafiosi, il riciclaggio di denaro sporco, l’evasione fiscale.
L’intervento fatto dal papa Benedetto XVI sull’educazione sessuale, che sarebbe una minaccia alla libertà religiosa, appare talmente fuori luogo da risultare ridicolo. Lui, il vescovo di Roma, che stringe la mano e accoglie felice Silvio Berlusconi, cioè colui che ha male-educato intere generazioni negli ultimi trent’anni, impostando le sue televisioni commerciali sull’esibizione sessuale di corpi giovani e adolescenti, anziché rifiutare ogni occasione di contatto con lui e condannare quel tipo di “educazione sessuale” irresponsabile provocata da quell’imprenditore senza scrupoli. Le televisioni di Berlusconi hanno minato tutte le libertà di pensiero e comportamento, non solo quella religiosa. Che scadalosa questa gerarchia cattolica italiana!
Ma non tutti i preti ed i vescovi sono succubi e silenti di fronte alla malvagità berlusconiana. Vorremmo in particolare che il vescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, nella cui diocesi esibisce i suoi comportamenti vergognosi e immorali Silvio Berlusconi, da molti cattolici e preti corteggiato e stimato come cattolico caritatevole, avesse il coraggio di prendere le distanze da questo personaggio e indicarlo alla comunità cristiana della diocesi di Milano come pubblico peccatore. E quindi usare nei suoi confronti quella intransigenza con cui Paolo si era rivolto ad un membro della comunità di Corinto, che aveva comportamenti non compatibili con l’appartenenza alla Chiesa di Cristo. “Questo individuo sia dato in balia di satana per la rovina della sua carne” (I Cor, 5,5).
E’ quella che da sempre si chiama “scomunica”. Chi più di Berlusconi, caro vescovo Dionigi, merita la scomunica dalla comunità diocesana di Milano? Lei, erede di quel vescovo Ambrogio che non esitò a mettere l’imperatore Teodosio di fronte alla sue gravi responsabilità di massacratore di 7000 persone a Tessalonica e, pena la scomunica, imporgli una pubblica penitenza, espella dalla Chiesa milanese quell’anticristiano. Sarà molto difficile infatti che le accada quel che Manzoni racconta sia accaduto a Federigo Borromeo riguardo alla conversione del malvagio Innominato, il quale, posto di fronte alle sue reponsabilità, dice “Dio veramente buono, io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso”. Lo spudorato signore di Arcore non solo non ammette le sue colpe, ma anzi nega tutto e continua a imbrogliare molti italiani ottusi dalla sua propaganda e anche molti cattolici. Vescovo Tettamanzi, lei che ha dimostrato in molte occasioni il coraggio della profezia, scomunichi Berlusconi come segnale forte nei confronti della comunità cristiana in Italia, stordita e scandalizzata dai comportamenti di Berlusconi e dal silenzio del papa e della Cei.
Lucio Eicher Clere

giovedì 13 gennaio 2011

La "charitas" delegata ai tecnici


La Chiesa cattolica si è dotata da alcuni anni  di una organizzazione chiamata “Caritas”, che si occupa in maniera costante e programmata dell’assistenza ai poveri, agli immigrati, ai disadattati sociali. Una struttura specialistica, presente in tutte le diocesi, che risponde nel modo più efficace possibile ai problemi delle persone ed alle carenze della società, il più delle volte supplendo all’inefficienza o all’incapacità di Comuni, Province, Regioni. Quasi dovunque questa organizzazione è guidata da persone di grande sensibilità e dedizione agli altri, sacerdoti o laici, che conoscono le problematiche più acute e sofferte della marginalità sociale e riescono a dare risposte pratiche ed organizzative molto efficaci. Addirittura questi “specialisti del servizio sociale” diventano protagonisti del dibattito civico e culturale, con risvolti politici, come è accaduto al responsabile della Caritas della diocesi di Venezia, don Dino Pistolato, che,  a proposito di immigrati avrebbe avanzato la proposta di limitarne l’afflusso perché fanno concorrenza agli italiani bisognosi di lavoro e di assistenza e rischierebbero di provocare un conflitto etnico. Magari le sue motivazioni saranno state nobili e diverse dall’interpretazione che ne è stata fatta in una società veneta a maggioranza egoista e leghista, ma è stato facile per la parte più retriva dell’opinione pubblica dire che “anche la Chiesa cattolica ha capito che bisogna fermare l’afflusso di immigrati e difendere innanzitutto i locali”.
Ma è doveroso domandarsi, come cristiani, se l’attenzione verso i poveri, o lo stesso comportamento della Chiesa che è “beata” solo se povera, sia un settore della pratica e della pastorale da affidare ad una organizzazione specialistica, o non dovrebbe essere, invece, la prima ed orientante finalità dell’essere religione scaturita dall’insegnamento di Gesù di Nazareth e da quello di Paolo di Tarso. Stupisce infatti constatare che, proprio per la sua specializzazione acquisita in questi anni, la Caritas svolga un ruolo di supplenza non solo nei confronti delle istituzioni pubbliche, ma anche della stessa Chiesa e della coerenza individuale dei cristiani. La Caritas rischia di essere l’alibi per tante diocesi e parrocchie che non mettono la pratica della povertà e “gli ultimi” come caratteristica strutturale della Chiesa di Gesù, e di tranquillizzare le coscienze dei ricchi che devolvono a questa organizzazione i loro guardaroba inutilizzati, i loro avanzi di cibo non consumato o scaduto, quel po’ di denaro in più che una volta si chiamava “elemosina” e che ora viene dato a chi si occupa dei bisognosi. Ma la “charitas” che deve essere la sostanza della fede cristiana e lo specifico della comunità che crede nel Dio dell’Amore, non può essere la specializzazione di alcuni soltanto. Perché un immigrato che non ha casa e vestiti deve rivolgersi alla organizzazione diocesana, e magari la parrocchia dove vive ha la canonica vuota? I poveri e gli emarginati non possono essere lasciati alle cure di alcuni, mentre la pastorale parrocchiale si occupa di campeggi per ragazzi, organizzazione del tempo libero degli anziani,e la gran parte del tempo dei sacerdoti è sprecata nel portare avanti pratiche obsolete e inutili, come la sacramentalizzazione di massa o le messe a ripetizione per ogni occasione, la conduzione burocratica della struttura parrocchiale svuotata dello spirito vero di “charitas”. Far assumere alle comunità locali, se vogliono riprendere il vero spirito del capitolo 13 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, la dimensione dell’amore attento e disinteressato. “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. (Paolo, I Cor. 13,3). Se le diocesi e le parrocchie hanno la Caritas, anche perfettamente funzionante, ma non assumono la caratteristica della “charitas” diventano , come di fatto sono,  “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”.

Lucio Eicher Clere