lunedì 22 dicembre 2014

Appello a papa Francesco: nomini vescovo don Pierluigi Di Piazza




Caro papa Francesco,
                                       non ho mai capito quali siano i criteri che regolano le scelte degli organismi curiali vaticani, incaricati per le nomine dei vescovi, nel promuovere a questo servizio ministeriale un sacerdote. Avendo conosciuto diverse figure di vescovi in Veneto e Friuli, mi sono fatto l’idea che l’ascesa gerarchica, più che per riconosciuta qualità della testimonianza pastorale e per stile di vita coerente con la radicalità evangelica, avvenga per meriti acquisiti nei confronti dei piccoli poteri diocesani locali, per sicuro conservatorismo nell’espressione dei principi cattolici, per la capacità di mediare e fare compromessi al ribasso, forse anche per qualche spinta clientelare. Recentemente mi è stato detto che uno dei criteri vigenti presso la Congregazione dei vescovi è quello dell’appartenenza al territorio della diocesi o di una limitrofa del nominando.
      Io sono un cristiano della diocesi di Belluno, dove il vescovo titolare, Giuseppe Andrich, nei prossimi mesi compirà 75 anni e dovrà dimettersi dall’incarico. So che nell’ambiente curiale della mia diocesi c’è fibrillazione in questo periodo, con attese, indicazioni, e anche qualche ambizione, su quale potrà essere il suo successore. Nella libertà di pensiero e di parola che da sempre ha contraddistinto la mia appartenenza alla Chiesa, mi sono permesso di esporre in più occasioni la delusione mia e di altri credenti per il decennio di ministero episcopale di Giuseppe Andrich.
      Per l’amore che conservo nei confronti della comunità che mi ha trasmesso la fede, dai miei genitori, alla piccola parrocchia, alla realtà più grande, cresciuta tra le valli montanare, dove il messaggio evangelico è giunto dalla chiesa di Aquileia, vorrei poter esprimere un auspicio, che il prossimo vescovo sia un profondo e radicale testimone del vangelo, una guida coraggiosa nel cammino fragile e incerto che la nostra comunità diocesana sta attraversando.
      E’ per la novità della sua prassi, dalla scelta del nome, al definirsi “vescovo di Roma e papa”, ai tentativi quasi impossibili di cambiare il sistema di potere vaticano, che mi permetto di avanzare a lei, più che alla Congregazione dei vescovi, la proposta di un nome, per il servizio episcopale nella diocesi di Belluno-Feltre per i prossimi anni. Mi attengo al criterio di appartenenza territoriale, o perlomeno di contiguità.
     Le chiedo, papa Francesco, di nominare vescovo don Pierluigi Di Piazza, un sacerdote della diocesi di Udine.  
     Don Pierluigi è un parroco che da decenni svolge il suo servizio ministeriale nella terra friulana. E’ nato nel 1947 in un paesino della montagna carnica, Tualis, dove ha imparato i valori della povertà e dell’onestà e da lì ha percorso quella strada formativa che tanti ragazzi del dopoguerra in Italia hanno seguito, cioè il seminario e la consacrazione sacerdotale. Da una ventina d’anni è parroco in un paese alla periferia di Udine, Zugliano, dove ha unito l’attività pastorale al servizio di accoglienza di migranti e persone bisognose di aiuto, facendo diventare il “Centro Balducci” un punto di riferimento per tutto il Nord-Est sui temi della pace, della nonviolenza, dell’accoglienza, della fraternità, dell’apertura alle tematiche dei poveri dei continenti dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia.
     Don Pierluigi è un entusiasta di Gesù e del suo messaggio evangelico, e riesce a comunicare questo suo amore a chi ha modo di avvicinarlo, sia con i gesti concreti che con le parole. Conforta vedere come agli incontri con i ragazzi ed i giovani, egli riesca a comunicare la freschezza e la novità del vivere in coerenza con i principi del vangelo.
     Don Pierluigi ha avuto il merito di non chiudersi nel piccolo orto della parrocchia e della diocesi di Udine, ma di saper invece guardare oltre l’orizzonte di un terra diventata negli anni molto benestante ed egoista, per indicare nuove mete e più ampi riferimenti. Suo punto di riferimento come vescovo è don Oscar Romero, il vescovo santo del Salvador. Con le Chiese sudamericane ha stretto legami profondi, ospitando al Centro Balducci i famigliari dei sei gesuiti assassinati nell’università del Salvador, sacerdoti perseguitati della Columbia, teologi di grande prestigio, come il brasiliano, di origine bellunese, Leonard Bof.
     Don Pierluigi è in dialogo e confronto con i non credenti e ne dà esempio il libro scritto a due voci con la scienziata atea Margherita Hack.
    La diocesi di Belluno-Feltre, papa Francesco, è piccola e marginale, e in questi anni ha dimostrato di avviarsi ad un inevitabile declino umano e pastorale. Chiederle di nominare vescovo don Pierluigi Di Piazza e affidargli questo lembo di terra dolomitica vorrebbe dire accendere una luce di speranza in un tramonto avviato alla notte. Ben sapendo che le sue qualità umane e pastorali meriterebbero spazi ecclesiali più ampi e importanti, sono tuttavia convinto che la profezia si esprime e produce frutti dove lo Spirito soffia.   
   E per un credente povero e peccatore, sognare che anche il suo sperduto angolo di chiesa possa essere visitato dallo forza rigenerante del Consolatore, è speranza che vorrei affidare a un uomo venuto dalla fine del mondo, a lei papa Francesco.

Lucio Eicher Clere

domenica 26 ottobre 2014

No alle messe scolastiche: dalla parte di un preside




   Un dirigente scolastico del Cadore ha proibito una celebrazione liturgica cattolica per le scuole del suo istituto comprensivo, per rispetto dei ragazzi di altre religioni. Decisione legittima e degna di considerazione, sia dal punto di vista della separazione tra Stato e Chiesa, che del confronto aperto tra diverse visioni del rapporto individuale e sociale con la religiosità.
   Molte le critiche pervenute al preside da parte delle famiglie e dei rappresentanti istituzionali, che hanno visto nella sua presa di posizione un attacco alle tradizioni religiose di un popolo da sempre praticante della religione cattolica, oppure una prevaricazione nei confronti della maggioranza degli alunni, per un “non ben specificato agire politicamente corretto” nei riguardi delle minoranza etniche e religiose.
   Come per il crocefisso nelle aule scolastiche, che alcuni anni fa era diventato, anziché l’icona del mistero centrale della fede in Gesù di Nazareth, la bandiera dell’integralismo occidentale contro l’avanzata dell’Islam, le tematiche religiose non vengono affrontate per il loro contenuto, ma per una ipocrita forma di difesa delle pseudo identificazioni con un passato di vita sociale in cui la religione scandiva lo svolgersi dei giorni, che ormai è scomparso e totalmente dimenticato dalle generazioni del terzo millennio. Infatti a prendere posizione contro il preside, che assume un legittimo atto di indirizzo didattico, che nulla toglie alla eventuale appartenenza religiosa degli alunni cattolici, si sono fatti avanti sindaci che non vanno mai in chiesa, se non per farsi vedere con la fascia tricolore, genitori che non praticano la religione ma pretendono la sacramentalizzazione dei figli, con battesimo, prima comunione e cresima, benpensanti preoccupati solo di salvaguardare la facciata ipocrita di una società provinciale e svuotata di valori.
   Chi lavora nella scuola, in particolare nelle superiori dove gli alunni passano gli anni dell’adolescenza, sa quanto poco interessati siano i ragazzi alla religione ed ai riti che essa propone. Anche se la maggioranza opta per la partecipazione all’ora di religione cattolica, è evidente a tutti che dentro alle aule gli insegnanti scelti dalla Curia parlano di tutt’altro che di tematiche legate alla fede in Dio. Preoccupati di non perdere clienti e salvarsi il posto di insegnamento, questi  privilegiati si arrabattano a trattare argomenti piacevoli e con contenuti psico-sociali, per far passare ai ragazzi un’ora di relax mentale nelle mattinate di spiegazioni e compiti delle materie che contano per il voto finale e la promozione.  Da anni chiediamo ai ragazzi che fanno la cresima a fine delle Medie o agli inizi delle Superiori se vadano ancora in chiesa dopo quello che dovrebbe essere il “sacramento della confermazione”. Ebbene, la quasi totalità risponde con insofferenza che finalmente, dopo la cresima, si può abbandonare la frequentazione degli ambienti religiosi. Una constatazione che dovrebbero fare in primo luogo i preti ed i vescovi, ma che da decenni si rifiutano di dibattere e portare alla luce del sole, con cambiamento della prassi pastorale.
Il ritiro in disparte dei dirigenti ecclesiastici, che, per rispetto della sacralità dei riti religiosi, dovrebbero essi per primi rifiutarsi di celebrare messe di circostanza, preghiere prêt à porter, celebrazioni ad uso e consumo delle categorie richiedenti, come se la religione fosse una qualsiasi forma di folclore popolare, sarebbe un bel segnale di valorizzazione della religione autentica, quella che segue la coerenza evangelica predicata da Gesù Cristo. E la decisione di un preside che si oppone alle cerimonie religiose dovrebbe essere salutata con soddisfazione proprio da coloro che credono nel valore assoluto e misterico della ritualità legata al culto della divinità e la condivisione comunitaria di una fede individuale professata e vissuta con coerenza.
Per un credente cristiano anche il rispetto delle altre religioni è un valore importante da vivere con la legge dell’amore insegnata da Gesù.  Per troppi secoli il cattolicesimo ha praticato l’intolleranza e la condanna, proclamando “extra ecclesia nulla salus”. Meglio l’assenza di crocefissi nelle aule e una messa di circostanza in meno, che lo spregio dei contenuti del cristianesimo praticata dagli ipocriti che si richiamano ai “valori cristiani della nostra tradizione”.
Lucio Eicher Clere

domenica 14 settembre 2014

Papa Francesco a Redipuglia, un’occasione mancata




    Sono risuonate potentemente le parole di Papa Francesco nella celebrazione per il centenario dell’inizio della maledetta guerra, che durò cinque anni, dal 1914 al 1918. “La guerra è una fol­lia – ha detto Ber­go­glio-men­tre Dio porta avanti la sua crea­zione, e noi uomini siamo chia­mati a col­la­bo­rare alla sua opera, la guerra distrugge, anche ciò che Dio ha creato di più bello, l’essere umano. La guerra è folle, il suo piano di svi­luppo è la distru­zione”. Parole che avrebbero dovuto recepire quelle migliaia di militari presenti sulla spianata davanti a quel retorico monumento, chiamato “Sacrario”, che è stato costruito per esaltare “l’eroismo e la dedizione alla Patria” delle migliaia di vittime della follia di capi di stato e generali che li hanno mandati al massacro. 
   Sappiamo che un capo di stato, qual è ancora il pontefice romano, non può esimersi dal partecipare a incontri ufficiali, dove tutto è preordinato, e la contraddizione e l’ipocrisia sono impossibili da eliminare. Ma proprio per la personalità forte e controcorrente di questo Papa, ci saremmo aspettati qualche gesto simbolico che ponesse i professionisti della violenza, quali sono i militari, di fronte alla storia criminale che li precede, e l’ incompatibilità della professione di soldati con l’appartenenza alla religione di Gesù Cristo. Lo avevano chiesto alcuni preti friulani, testimoni veri della fedeltà al vangelo più che non alla gerarchia ecclesiastica, quelli che da anni scrivono la “lettera di Natale” dove esprimono riflessioni profonde e libere sulla Chiesa e la società, in una lettera aperta inviata a Papa Francesco. 
   “Ci dispiace –scrivono don Pierluigi Di Piazza e altri dieci colleghi- che le Diocesi delle nostre regioni siano state coinvolte esclusivamente come distributrici di “biglietti”, per la partecipazione ufficiale di pochi alla celebrazione. Tutti attendevano con ansia e intenso desiderio una tua visita in occasione del Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale che ovunque, ma in particolare nelle nostre terre, ha seminato morte, distruzione e avvelenato quasi fino a oggi le relazioni tra i popoli e le nazioni che vivono in questo lembo d’Europa. Ma l’organizzazione dell’Ordinariato Militare ha sostanzialmente reso impossibile non solo l’indispensabile preparazione, ma perfino la stessa presenza all’evento”.
   Ecco, un primo gesto che Francesco avrebbe potuto fare in quest’occasione di condanna delle guerre, era la proclamazione ufficiale dell’abolizione dell’Ordinariato militare, dei vescovi castrensi  e dei cappellani militari, tutte figure della gerarchia stipendiate dal Ministero della Difesa. La Chiesa che si ispira a Gesù Cristo ha partecipato per secoli alla violenza armata degli eserciti, benedicendo armi sull’uno e l’altro fronte, con la presenza a sostegno dei soldati pronti all’assassinio dei nemici di preti in divisa, che celebravano messa, distribuivano particole e benedicevano con acqua santa gli assalti all’arma bianca. Condannare questi errori, eliminando il legame tra Chiesa e esercito, togliendo l’incarico agli anacronistici residuati vescovi castrensi e cappellani militari e assegnandoli all’accoglienza dei profughi sulle spiagge della Sicilia, sarebbe stato un segnale molto esplicito per la ribadita scelta della nonviolenza che Papa Francesco predica e pratica nella sua azione pastorale.
   Significativa la scelta del Papa di visitare il cimitero dei soldati austriaci e ungheresi, ribadendo l’unica verità dell’uguaglianza delle vittime della follia bellica. Ma una sua autorevole parola di condanna della parola “sacrario”, desunta dalla terminologia religiosa (“sacro” infatti è ritenuto da sempre ciò che appartiene alla religione ed alla spiritualità) avrebbe fatto vergognare quanti hanno continuato ad avallare la retorica mussoliniana di esaltazione della vittoria, trasformando un cimitero di vittime in un pantheon di eroi. Quello di Redipuglia non è un “sacrario”, bensì un grande insulto alle vittime della maledetta guerra.
    Ciò che è mancato ancora nel discorso del Papa a Redipuglia è stato il ricordo dei veri eroi di quel periodo, cioè i giovani che si sono rifiutati di imbracciare un fucile e ammazzare altri uomini. Sempre i preti friulani scrivevano nella lettera al Papa: “L’individuazione delle diverse cause e delle chiare responsabilità lascia infatti sempre aperta la grande questione del perché l’essere umano sia così facilmente disponibile alla violenza, alla guerra, all’uso delle armi, perché accetti gli ordini assurdi e disumani e non esprima l’obiezione di coscienza agli ordini che provocano morti, feriti, distruzioni. Migliaia e migliaia di soldati sono stati processati e uccisi, anche sul Carso, perché si sono rifiutati di obbedire a comandi contro l’umanità: sono stati a lungo bollati come vigliacchi e disertori, per noi sono profetici testimoni di umanità e di pace; meritano di essere esplicitamente ricordati nella celebrazione della memoria!”. 
   Attendiamo da Papa Francesco sempre maggiore coraggio nell’affermare e praticare nella Chiesa la coerenza del messaggio non violento di Gesù.
Lucio Eicher Clere

sabato 13 settembre 2014

Un vescovo banal-popolare




Che l’episcopato di Giuseppe Andrich ai vertici della diocesi di Belluno-Feltre trascorresse “sanza infamia e sanza lodo” era facile profetizzarlo fin dal giorno in cui si diffuse la notizia che, a sostituire Vincenzo Savio, era stato nominato il suo vicario generale, che lo aveva supplito negli ultimi mesi di malattia. A farlo prevedere era il curriculum del soggetto, entrato nella bambagia del seminario fin da piccolo e rimastoci, con qualche uscita attorno al campanile del duomo di Belluno, fino al Centro Giovanni XXII di Piazza Piloni, fino a tutt’oggi. Una carriera ecclesiastica sulle orme del compaesano Albino Luciani, che però dopo la nomina a vescovo di Vittorio Veneto, ebbe ancora un altro avanzamento professionale come patriarca di Venezia, fino all’elezione a papa, 264esimo successore di Pietro. Chissà che, visto che basta salire i vertici gerarchici nelle Chiesa cattolica per avere titoli per essere proclamati santi, non accada anche a Andrich di essere proposto almeno per la venerabilità, quando (“anco tardi a venir”) concluderà il suo percorso terreno…Scherziamo coi fanti, ovviamente. Anzi con gli alpini. Perché una delle passioni di questo vescovo, visto che tra i tanti privilegi avuti in giovinezza ebbe anche quello di essere esentato dal servizio militare, è quella di mettersi il cappello d’alpino e cantare canzoni di naja e di montagna. Memorabile(si fa per dire…) la conclusione della manifestazione per la difesa della provincia, tenutasi senza alcun risultato nel 2012, quando dai microfoni del palco in piazza duomo intonò “varda la luna come la cammina…senza alpini come farò!”. 
Quando fu eletto vescovo nel 2004, molti confratelli ebbero lo stesso pensiero di quell’uomo di Comelico Superiore che, quando gli facevano osservare che aveva sposato una donna brutta, rispondeva rassegnato: “Par cà da nei fa e vanza”, certi che la scossa e le speranze del breve episcopato di Savio non si sarebbero ripetute. Infatti il sinodo diocesano, convocato dal predecessore e portato a conclusione da lui, non produsse altro che un libro di belle (si fa per dire…) parole senza alcun cambiamento nella prassi diocesana e nel lento e inesorabile declino della vita religiosa tra le vallate del Piave, del Maè, del Cordevole. Il decennio andrichiano ha continuato  nel grigiore di un clero sempre più vecchio, senza ricambi, con pochi giovani preti disorientati e molti di loro in crisi per la scelta celibataria. Né si poteva pensare che un funzionario ligio alle leggi canoniche potesse nemmeno pensare in privato ciò che tutti i cristiani feltrini e bellunesi hanno pensato quando don Giulio Antoniol decise di lasciare la tonaca perché si era innamorato di una donna, e cioè che è tempo ormai passato che la Chiesa abolisca l’assurda e anacronistica imposizione del celibato obbligatorio per i preti, salvando così il servizio ministeriale di persone preparate e motivate, che potrebbero svolgere il loro ruolo di parroci anche con famiglia, come da secoli fanno egregiamente i pastori e le pastore evangeliche. Mai nel decennio andrichiano si è vista la Chiesa locale prendere posizione sulle questioni calde, come l’immigrazione così osteggiata dai benpensanti bellunesi, mettendo a disposizione dei profughi le decine di canoniche vuote.
Il vescovo di Canale d’Agordo (paese di carriere gerarchiche!), ha preferito adeguarsi al livello banal-popolare che contraddistingue la gran parte dei personaggi (si fa per dire…) che hanno assunto ruoli dirigenziali in questo lembo marginale di terra dolomitica. Nella trascorsa estate, forse anche complice l’avvicinarsi della scadenza del mandato episcopale (compirà 75 anni il prossimo marzo 2015), Giuseppe Andrich ha dato spettacolo di questa banalità in varie occasioni. Ricordiamo l’improbabile karaoke alla festa degli ex emigranti a Vigo di Cadore. Così pure la sceneggiata del tirare una vecchia sega, inconsapevole o indifferente alle battute maliziose che tale gesto inevitabilmente avrebbe comportato, alla festa degli antichi mestieri a Danta di Cadore. E sempre in ridicola gara di presenzialismo con un ex politico provinciale, presidente scaduto e scadente (participio presente del verbo scadere…), ma sempre col culo caldo alla ricerca di qualche sedia, anche rotta, su cui sedersi per scaldarla.
Dopo questo decennio di episcopato, la diocesi di Belluno-Feltre non avrà nulla da rimpiangere, solamente da sperare che il prossimo vescovo non prosegua le orme banal-popolari di quello attuale.
Lucio Eicher Clere