Ricordo di
don Ferdinando Tamis a cent’anni dalla nascita. Ricordo di pomeriggi e serate
in una stanza piena di libri e documenti, dove negli ultimi anni della sua vita
era stato ospitato nel Seminario di Belluno, dopo aver passato la giovinezza e
la maturità ai margini, senza alcun incarico ecclesiale, fatta eccezione per l’insegnamento
della religione alle scuole Medie della città. Ricordo della accoglienza
affettuosa e del sorriso riconoscente verso quegli studenti che ascoltavano i
suoi racconti di storia locale, le conoscenze degli archivi curiali fino ai
documenti più dimenticati, i tentativi di trasmettere la passione per la
ricerca e il metodo di comparazione tra la microstoria e quella scritta negli
annali.
Leggendo le
cronache delle cerimonie celebrative del centenario nella sua Agordo, dove
giustamente gli è stata dedicata la sala della Comunità montana, istituzione
che don Tamis aveva concepito e sostenuto con la sua visione comprensoriale
della storia dell’Agordino, avrei pensato di trovare una parola di scusa o una
richiesta di perdono pronunciata dal vescovo Giuseppe Andrich nei confronti di
questo sacerdote, per le sofferenze procurategli dalla gerarchia diocesana
negli anni in cui decise e attuò la sua emarginazione. E invece il canalino
Andrich, compaesano di Albino Luciani,
ha seguito il classico atteggiamento ipocrita del potere, che onora e addita ad
esempio dopo morti coloro che in vita ha distrutto moralmente e volutamente
impedito che potessero trasmettere il loro insegnamento.
Don
Ferdinando ci raccontava quando, fresco di studi giuridici fatti a Roma, era
tornato a Belluno ed aveva iniziato ad insegnare diritto nei corsi di teologia.
Gli studenti erano entusiasti di lui, del suo metodo, probabilmente anche perché
il vecchio professore che egli aveva sostituito faceva morire di noia. Alla
fine di qualche lezione lo avevano perfino applaudito. Un ingresso nel gruppo
degli insegnanti di teologia che aveva dato una grande scossa di novità e di
competenza. Tanto da preoccupare l’allora vicerettore del seminario, anche lui
di ritorno dagli studi a Roma, il conterraneo agordino Albino Luciani. Don
Tamis ci rivelava l’invidia e l’ostilità che Luciani provava nei suoi confronti
e l’azione da lui messa in atto per screditarlo e metterlo in cattiva luce nei
confronti dei colleghi e della dirigenza curiale. Che don Tamis non fosse un
millantatore, quando raccontava i suoi successi di professore in teologia, ne
avevamo prova da vari preti che in quegli anni erano stati suoi alunni. Tutti
lo ricordavano con ammirazione, non sapendosi spiegare perché fosse stato
allontanato e costretto in un ruolo umiliante di cappellano di una famiglia di
pseudo nobiltà provinciale. Don Tamis seppe esprimere le sue doti in altri
contesti e fu apprezzato come studioso e storico anche senza l’imprimatur della
Curia di Belluno.
Nei nostri
anni di frequentazione con lui, il suo persecutore Albino Luciani era stato
nominato patriarca di Venezia e poi cardinale. Una grande cerimonia in
cattedrale, con la messa presieduta dal neo patriarca, e poi un pranzo in
Seminario avevano festeggiato l’evento in terra bellunese. Don Tamis, che non
aveva mai perdonato il rivale, così abile nel fare carriera dentro
all’istituzione cattolica, inghiottì il boccone amaro. E noi, con crudele senso
di provocazione, una sera in cui ci raccontava di avere in un cassetto un
dossier “delle malefatte di Luciani”, quando era il Vicario generale della
diocesi di Belluno, gli prospettammo l’ipotesi che potesse diventare papa. “No,
sai, lo Spirito Santo non lo permetterà”, ci rispose scuotendo la testa con il
suo tipico sorriso. Quando Albino Luciani, dopo 33 giorni di papato, morì, mi
ricordai di quella frase, in un certo senso profetica, di don Ferdinando.
Chissà che
fine avrà fatto quella cartella con i documenti relativi alle “malefatte” di
Albino Luciani, che, non ho dubbi, don Tamis avesse custodito con cura. La
“mano lesta” dei curiali avrà fatto pulizia e bruciato ogni carta che possa
macchiare la memoria del futuro “san Giovanni Paolo I”. Ma non fosse altro che
per risarcimento alla memoria di un perseguitato ed emarginato prete di grande
valore, come è stato don Ferdinando Tamis, la causa di beatificazione di
Luciani dovrebbe fermarsi e riposare in pace.
Lucio Eicher
Clere