L’attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001 è ricordato nel decennale come fosse stato una svolta epocale della storia contemporanea. Rievocazioni, testimonianze, immagini, palinsesti radiofonici e televisivi dedicati per giorni solo a questa vicenda. Pochi rimarcano l’esagerazione e la stortura di questo modo di commemorare un episodio sì grave, ma non certo diverso dai tanti che sono accaduti ed accadono in questo pianeta dove l’uomo usa la violenza contro i suoi simili e l’ecosistema che lo ospita. New York è una città di qualche milione di abitanti, i morti per decesso naturale o per violenza sono sicuramente centinaia al giorno, e in quella mattina di settembre di dieci anni fa la quantità dei morti è risultata maggiore per un fatto eccezionale, come per un terremoto e per un uragano. Il senso del limite e della eccezionalità dell’evento dovrebbe contestualizzarlo in modo logico come uno dei tanti eventi dolorosi della storia umana. Come è stato, per esempio, la tragedia di Longarone nel 1963, dove in pochi minuti sono morte oltre 2000 persone ed un intero paese è stato cancellato dalla forza dell’acqua caduta dalla diga del Vaiont. Fatte le debite proporzioni, tra l’irrisoria percentuale dei morti delle torri gemelle, rispetto alla popolazione della città statunitense, e la totalità degli abitanti di Longarone, come dovrebbe essere celebrato e ricordato quell’evento in Italia e nel mondo? Purtroppo in occidente siamo trascinati nella lettura delle vicende con lo sguardo americano e siamo portati a valutare ogni fatto con la distorsione che il sistema mediatico della superpotenza economica ha imposto.
Se devo ricordare quell’episodio di dieci anni fa, la mia indignazione e lo scandalo che provo ancora di fronte alla retorica enfatica del dolore per l’evento vanno nei confronti dei capi della potenza statunitense, alla loro reazione istintiva e violenta, alle guerre scatenate in Afganistan e Iraq contro popoli che nulla avevano a che fare con la scelta distruttrice e odiosamente spettacolare di alcuni terroristi di un movimento sovranazionale come è Al Qaeda.
Non celebro l’11 settembre e registro un fastidio mentale che mi porta a tenere spente radio e televisione, a saltare in blocco paginate di quotidiani e settimanali, perché penso che quell’attentato sia stato un esempio mitologico di come i popoli ricchi possono stravolgere i fatti storici e reagire con l’istinto della violenza, allo stesso modo come reagì Polifemo nell’episodio dell’Odissea, quando, prigionieri nella caverna, Ulisse ed i suoi lo accecarono e poi riuscirono a fuggire sotto la pancia delle pecore. Il ciclope uscì e urlando cominciò a lanciare sassi in mare, come il suo omologo contemporaneo, Polifemo-Busch, provvide a scatenare l’inferno delle bombe contro le città ed i paesi dell’Afganistan e dell’Iraq.
Questo è il ricordo che celebro, l’ennesima dimostrazione occidentale dell’assurdità della guerra, della reazione più violenta contro una provocazione violenta. E mi domando cosa abbia insegnato il cristianesimo in duemila anni di presenza nella storia dell’umanità. Il messaggio di amore, di nonviolenza, di fratellanza universale, anche di amore per i nemici, che Gesù ha predicato e insegnato ai suoi discepoli ed avrebbe dovuto essere la caratteristica distintiva della comunità dei credenti che nel suo nome sono diventati Chiesa, sono stati dimenticati e stravolti nei secoli di unione tra altare e spada, tra potere religioso e politico-militare, che hanno segnanto la storia e la cultura dell’Occidente cosiddetto cristiano.
Come credente in Gesù e nel Dio dell’amore vorrei che le Chiese che a lui si richiamano non si accodino alla retorica massmediatica delle celebrazioni per l’attentato di New York, ma levino alta la voce contro la violenza delle guerre scatenate da Bush e dai suoi generali, che ancora, a dieci anni di distanza, insanguinano quelle popolazioni innocenti. Vorrei che, a nome della religione cristiana, almeno i dirigenti delle Chiese abbiano il coraggio di chiedere perdono per i morti, le distruzioni, la privazione di futuro, che le guerre immotivate dei ciclopi moderni hanno provocato nei paesi del Medio Oriente. Vorrei che si dicesse ad alta voce che i potenti delle armi sono fuori dalla comunità cristiana, che essi rappresentano la legge dell’odio, che è il contrario di quello che Gesù è venuto a portare agli uomini, vittima egli stesso dell’odio e della violenza.
E invece dovrò rassegnarmi a sentire il generale di Corpo d’armata in pensione con i soldi dell’Esercito Italiano, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana esprimere il sentito cordoglio per le vittime, condannare il terrorismo, comprendere il diritto degli Stati Uniti a difendersi, così come ha fatto centinaia di volte benedicendo i soldati in armi e definendo eroi i morti ammazzati in finte missioni di pace, quando in realtà sono invasori armati su territori altrui.
Lucio Eicher Clere
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