mercoledì 15 novembre 2017

Quali virtù eroiche ebbe Albino Luciani?




La proclamazione della “venerabilità” di papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani di Canale d’Agordo, ha suscitato molto entusiasmo negli ambienti ecclesiastici bellunesi ed in particolare nell’Agordino, dove da anni si attende la santificazione dell’illustre conterraneo, con il conseguente movimento di pellegrini e di turismo religioso che ogni santuario suscita.
La motivazione del decreto che riconosce Luciani “venerabile” è “l’esercizio eroico delle virtù cristiane”. Una definizione che lascia perplessi e sconcertati quanti hanno seguito le vicende della vita di questo personaggio, diventato papa in agosto del 1978 e morto dopo 33 giorni.
Che Albino Luciani abbia vissuto in maniera eroica è una definizione che si scontra con l’accezione che, nella lingua italiana, hanno il sostantivo e l’aggettivo “eroe” e “eroico”. Lo possiamo considerare sia nella retorica militarista e bellica, sia nella verifica dell’impegno fino a dare la vita di quanti si sacrificano per gli altri. Tralasciando i cosiddetti “eroi” delle guerre assassine, che hanno purtroppo accompagnato la storia dell’umanità, si possono definire eroi i tanti che hanno sofferto, subìto, sono morti per ideali o per dedizione verso il prossimo. Se devo pensare a qualche esempio di esercizio eroico delle virtù penso a Dietrich Bonhoeffer, morto in campo di concentramento a Flossemburg; a Nelson Mandela, detenuto per 27 anni nella prigione di Robben Island; a don Lorenzo Milani, umiliato nell’esilio di Barbiana, e a mille altri testimoni di coerenza di vita, di ideali, di abnegazione  e di amore altruistico, vissuti fino alla morte.
Attribuire la definizione di “eroe” ad Albino Luciani è improprio e fuorviante. La sua vita, dall’infanzia negli ambienti protettivi del seminario, dove non si pativa la fame né altri disagi, alla progressiva salita nei gradi clericali, da vicerettore, a vicario generale, a vescovo, a cardinale, fino al papato, è stata un cursus honorum, dove la gratificazione è prevalsa sulla sofferenza. E benché egli avesse apposto sullo stemma vescovile la parola “Humilitas”, le cariche ricoperte nella Chiesa cattolica ne hanno fatto tutt’altro che un “umile cristiano”. E allora perché “venerare” questo ecclesiastico di carriera e sperare che venga proclamato presto beato e poi santo? I postulatori della causa di beatificazione  tentano di attribuire a Luciani le caratteristiche della santità comune a tutti i cristiani che sono fedeli all’insegnamento di Gesù. “Santità –dice il parroco di Canale d’Agordo- è ascoltare la voce di Dio che chiama e saper corrispondere. Non tanto cosa si fa ma come lo si fa. In poche parole santo è chi fa la volontà di Dio ogni momento della sua vita”. Parrebbe di capire che, non avendo cose clamorose da attribuire a Luciani, che, se non fosse diventato papa, nessuno si sognerebbe di considerare “eroe” della pratica evangelica, l’unico motivo per proclamarlo santo è l’essere diventato papa. L’ultimo grado della carriera di don Albino.
“Sfortunato il paese che ha bisogno di eroi” diceva Brecht. E invece Canale d’Agordo attende la santificazione del suo “venerabile eroe”, confidando nell’autenticità di alcune asserite guarigioni per merito di Luciani.
E’ mortificante, per chi vorrebbe vedere la fede cristiana liberata dalla magia e della superstizione, constatare che attorno al business della santità s’affollano i cercatori di reliquie e gli imploranti  miracoli.
L’incoerenza di chi sostiene che la santità è un esempio da seguire nella vita di ogni cristiano e poi per certificarla pretende che ci sia il clamore di un miracolo, per somma ipocrisia certificato dalla scienza, è insopportabile.
Sacrilega quella religione che ha bisogno di attribuire a Dio, a madonne e santi, le prove di interventi esterni nella vita delle persone. “Dio non gioca a dadi” diceva Einstein. E tantomeno si diverte a favorire, come un croupier al casinò, la guarigione a qualcuno e a lasciare con indifferenza tutti gli altri ammalarsi e morire.
Veneratori di Albino Luciani, leggete quel passo della lettera ai Corinzi  di san Paolo: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani (I Cor 1, 22-23), per ridare alla fede l’unico centro: Gesù di Nazareth.

Lucio Eicher Clere

giovedì 19 ottobre 2017

Il referendum anticristiano dei leghisti veneti e lombardi



I vescovi veneti seguono i richiami autonomisti della Lega ipocrita di Zaia, entrando in un dibattito sul referendum per l’autonomia del Veneto, dando credibilità ad una buffonata sprecona, che ha il solo scopo di dare sostegno alle istanze egoistiche e divisive, che da sempre hanno caratterizzato il partito nato in Veneto e cresciuto in Lombardia, sotto la guida di Umberto Bossi.
Come non ricordare, a fronte di una mobilitazione finto-istituzionale con tanto di seggi e schede ufficiali, le sceneggiate bossiane per la secessione della Padania, quando i leghisti si professavano adoratori del Dio Po, salendo alla sorgente del Monviso per prelevare l’acqua in una ampolla e versarla nella laguna di Venezia il giorno dell’adunata sulla riva degli Schiavoni? Allora i proclami secessionisti finivano a polenta e salsicce nei gazebo sulle rive del Po e del Piave, ma ora anche la grossolaneria popolare leghista si è raffinata e la dirigenza di due Regioni, Veneto e Lombardia, camuffa la vecchia secessione con una più blanda richiesta di autonomia, da affidare ad un referendum che essa vorrebbe fosse un plebiscito.
Questo atteggiamento ipocrita, che nasconde sotto una scelta democratica la voglia di consenso per un partito che ha imbrogliato e sprecato denaro pubblico in decenni di governo, dovrebbe essere smascherato da chi conosce la storia recente e le finalità vere del referendum di Zaia e Maroni. E invece sono molti gli autentici democratici, gli idealisti di sinistra,  le associazioni di impegno nel sociale  e altre menti lucide che hanno preferito tacere o adeguarsi ad entrare nell’assurda arena dei reclami di autonomia di due delle regioni più ricche d’Italia.
A chi crede negli ideali del vangelo, la chiamata al voto per sancire il diritto dei benestanti ad avere ancor più risorse e libertà di gestirle è una tentazione diabolica, analoga a quelle a cui venne sottoposto Gesù nel periodo di ritiro nel deserto. «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai. Allora gli disse Gesù: "Vattene, Satana! Sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo presterai culto" (Mt. 4, 9-10)."
Il rifiuto della ricchezza e dell’accumulo di beni è uno dei messaggi cardine della predicazione di Gesù di Nazareth. La scelta della povertà assoluta è stata la caratteristica della vita di san Francesco d’Assisi. La beatitudine della povertà, proclamata nel discorso della montagna, si sposa con altri ideali, quelli su cui un credente dovrà essere giudicato, “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (Mt. 25, 35-36).
Mi sarebbe piaciuto sentire dal patriarca di Venezia, in questo periodo di propaganda egoistica all’avere di più in una regione che ha già molto, e che ha dimostrato nei decenni di Galan e Zaia quanto sappia sprecare, rubare, corrompere, un richiamo alla solidarietà ampia, con chi ha meno risorse e prospettive di vita dignitosa; di apertura del cuore e della mente verso chi arriva da luoghi di guerra, di fame, di violenze, non sentire invece la banale e discutibile considerazione “Federalismo e autonomia fanno parte della dottrina evangelica”.
Se i vescovi veneti e lombardi ritenevano importante entrare nel dibattito sul referendum per l’autonomia, sarebbe stato coerente con il vangelo invitare i cristiani ad astenersi e rifiutare un richiamo all’egoismo ed agli istinti divisivi e separatisti.
Io, insieme a molti amici, non andrò a votare per un referendum inutile, ipocrita, scialacquatore di risorse pubbliche. Lascerò “che i morti seppelliscano i loro morti (Mt. 8,21)”.

Lucio Eicher Clere

mercoledì 20 settembre 2017

Gregorio XVI, un papa di cui bellunesi e carnici devono vergognarsi




A Belluno si ricorda papa Gregorio XVI, quasi fosse un grande personaggio della storia della Chiesa, e si cerca di confondere la memoria di quanti conoscono vagamente chi sia stato, in un periodo storico critico e denso di istanze rinnovatrici nella società e nella Chiesa stessa, quel tal Bartolomeo Alberto Cappellari nei suoi 16 anni di pontificato.
Ora, nessuno si stupisce se a Predappio si ricorda e magari si ossequia Benito Mussolini, dittatore e guerrafondaio, o se a Pallanza si celebra il generale assassino Luigi Cadorna. Ognuno ha i paesani che la storia consegna. Ma far credere che quei personaggi siano figure da riscoprire e di cui vantarsi sarebbe davvero intollerabile.
Invece a Belluno si dedicano ciclicamente giornate di rievocazione del personaggio Gregorio XVI, si mettono in mostra paramenti e suppellettili quasi fossero reliquie, si esibiscono monete e medaglie commemorative, volendo dimenticare chi sia stato veramente quel papa in quel periodo storico.
I Cappellari erano una famiglia proveniente dalla Carnia, da Prato Carnico in Val Pesarina, che si stabilì a Belluno per lavoro artigianale. Bartolomeo Alberto nacque in quel di Bolzano bellunese nel 1765 e a 18 anni intraprese la vita monastica tra i camaldolesi. Della sua vita precedente all’elezione papale poco ci importa, anche se le giornate di rievocazione di Belluno hanno proposto una conferenza dal titolo “L’affabilissimo Cappellari. Gregorio XVI nelle carte d’archivio di Camaldoli”. Quello che importa invece è sapere cosa ha fatto da papa, da quando venne eletto nel 1831 fino a quando morì nel 1846.
Senza voler giudicare a posteriori la storia, è difficile trovare qualcosa di positivo nei 16 anni di pontificato del papa carnico-bellunese.  Egli è stato il papa dell’enciclica “Mirari vos”, nella quale condannò non solo il razionalismo, il gallicanesimo e l’indifferentismo, ma anche la libertà di coscienza, definita “pestilentissimo errore”.  Era contrario alla libertà di stampa e d’opinione, che considerava egualmente pericolosa per la Chiesa e per lo Stato. L’ipotesi che da questo tipo di libertà, potesse derivare una qualche utilità per la religione, venne respinta come “somma impudenza”, senza dare ulteriori spiegazioni.
Reazionario, chiuso ad ogni novità, persino alle scoperte scientifiche e mediche, impose l’assoluto divieto di ogni libertà di azione e di pensiero che non fosse conforme ai dettami della “Santa Madre Chiesa”, con gravi minacce costrinse gli ebrei a non esercitare alcuna attività al di fuori del ghetto. Fu contrario alla ferrovia ed all’illuminazione a gas, perché non voleva che con queste innovazioni si potesse facilitare l’infiltrazione di idee liberali. Durante gli anni del suo pontificato sostenne i regnanti totalitari, complimentandosi con loro per la repressione violenta delle ribellioni popolari che in quegli anni avvenivano un po’ dovunque in Europa. Nei suoi anni al potere dello Stato pontificio furono eseguite oltre un centinaio di condanne a morte, alcune ricordate anche per la futilità delle motivazioni, come quella inflitta a Giuseppe Balzani, fatto decapitare il 14 maggio 1833 per avere offeso il papa, o quella di Luigi Scopino, fatto decapitare il 21 luglio 1840 per avere rubato oggetti sacri.
Di un papa paesano di tal fatta dovrebbero vergognarsi i carnici ed i bellunesi e stendere sulla sua memoria un velo di triste oblio, non cercare di mistificare la sua vicenda di potere, anche solo per un modesto ritorno di immagine per qualche maniaco rievocatore.
Nell’elenco dei papi successori di Pietro figurano due bellunesi. Ma se Luciani non è passato alla storia per l’esiguità dei giorni di permanenza in vita da papa, Gregorio XVI risulta iscritto tra i peggiori papi degli ultimi secoli. E se per Luciani gli agordini fremono perché sia proclamato santo, anche senza alcun merito se non l’aver fatto carriera ecclesiastica fino al soglio pontificio, non vorremmo che da Bolzano bellunese partisse la richiesta di santificare anche Cappellari. Magari con la motivazione che, bontà sua, era contrario alla schiavitù.
Lucio Eicher Clere