sabato 26 novembre 2016

Un Giubileo senza misericordia




Lettera aperta al vescovo di Belluno-Feltre, Renato Marangoni

Nella periferica provincia di Belluno, dove sono presenti quattro diocesi, la chiusura del Giubileo straordinario della misericordia, voluto da Papa Francesco è passata in silenzio, come in silenzio s’era aperto questo evento e nell’indifferenza dei più s’è svolto, soddisfacendo le apparenze, come l’attraversamento delle cosiddette “porte sante”, o con un pellegrinaggio a Roma, o con suffragi per ottenere l’indulgenza plenaria.  Le dirigenze ecclesiastiche, vescovi e preti di questo territorio, hanno dato l’impressione di accogliere l’invito di papa Francesco come una incombenza da assolvere, in mezzo alle tante che assillano la vita pastorale: amministrare sacramenti, fare catechismo, celebrare messe e funzioni, incentivare devozione a madonne e santi patroni. Ma lo spirito che animava l’idea giubilare di papa Bergoglio non è stata fatta propria dalla Chiesa locale e tradotta in prassi organizzativa ed operativa.
Non si poteva certo pretendere che il vescovo Giuseppe Andrich, burocrate prossimo alla pensione, stimolasse il suo clero a prendere sul serio gli inviti del papa a praticare la misericordia e l’accoglienza in ogni parrocchia. Ma con l’arrivo del nuovo vescovo, Renato Marangoni, sarebbe stata auspicabile una svolta nella “morta gora” in cui giace da anni la Chiesa locale, un impulso a mettersi nella sequela del vangelo e degli indirizzi che questo papa argentino sta dando dal giorno in cui è stato eletto come vescovo di Roma. Se lo stile andrichiano, il cui decennio di vescovado è passato “sanza infamia e sanza lodo”, era quello di lasciare le cose come stanno, presenziare alle feste religiose e civili, andare d’accordo con le autorità locali, non c’è da stupirsi che la vitalità e la qualità dell’azione pastorale dei sacerdoti e dei loro accoliti sia scesa a livelli penosi per quanto riguarda la partecipazione all’attività religiosa ed alla prassi evangelica che dovrebbe in-formare la vita dei cristiani.
Proprio per questa situazione ecclesiale deprimente, ad un nuovo vescovo spetterebbe il compito di dare segnali e fare gesti che siano segno di risveglio e di allineamento sugli indirizzi di papa Francesco. Mi riferisco in particolare al problema dell’accoglienza dei rifugiati, dei profughi che scappano da paesi in guerra o in situazioni di scarsità di cibo e di insostenibili condizioni di vita. Più volte papa Francesco ha invitato ogni parrocchia a rendersi disponibile per ospitare dei profughi. Ma in tutto il Giubileo della misericordia in diocesi di Belluno, e nelle altre 3 che hanno la giurisdizione in alcuni paesi della provincia, non s’è mai alzata una voce, né si è mai vista un’attività organizzativa che coinvolgesse tutte le parrocchie nell’offrire ospitalità a chi richieda aiuto e assistenza. Eppure sono decine le canoniche, le case della dottrina, gli edifici di proprietà dell’istituto per il sostentamento del clero, che potrebbero essere aperte per ospitare questi uomini, donne e bambini in fuga e disperati. Ma in diocesi di Belluno-Feltre in tutto l’anno della misericordia si è dimenticata la “charitas”, quell’amore di cui parla Paolo nella prima lettera ai Corinzi, capitolo 13, preferendo delegare alla Caritas, cioè l’organismo specializzato in aiuti ai bisognosi, le risposte alle emergenze.
I preti di periferia hanno le loro incombenze, e poi sono vecchi e stanchi, non si può mica pretendere che si occupino di siriani, afgani, africani, magari nelle loro canoniche, palazzine del quieto vivere? E i loro fedeli si servizio hanno tante cose da fare: pulire la chiesa, mettere fiori e candele sugli altari, organizzare le cerimonie dei sacramenti e delle sagre. E i cosiddetti “diaconi”? Anche per loro ci sono incarichi più importanti dell’assistenza ai negri: distribuire la comunione, servire messa e leggere il vangelo nelle celebrazioni solenni,  custodire i santuari e altre diaconie da maggiordomi ecclesiastici.
Un vescovo che si ispiri al vangelo ed alla predicazione di papa Francesco dovrebbe essere segno di contraddizione in questa diocesi di egoismi e diffidenza avvallata anche dalla religione tradizionalista. Un vescovo che abbia letto gli appelli del papa, anche nella lettera “Misericordia et misera”, dovrebbe mettere al primo posto della sua azione pastorale l’organizzazione dell’accoglienza nelle parrocchie di tutto il territorio. “Il carattere sociale della misericordia esige di non rimanere inerti e di scacciare l’indifferenza e l’ipocrisia, perché i piani e i progetti non rimangano lettera morta. Lo Spirito Santo ci aiuti ad essere sempre pronti ad offrire in maniera fattiva e disinteressata il nostro apporto, perché la giustizia e una vita dignitosa non rimangano parole di circostanza, ma siano l’impegno concreto di chi intende testimoniare la presenza del Regno di Dio”. Riempire le canoniche vuote, coinvolgere i cristiani attivi nell’impegno di solidarietà. Trasformare la Caritas in struttura diffusa in ogni parrocchia, commissariando, ove necessario, i preti ostili od inerti. Sconfessare le prese di posizione anticristiane di certe istituzioni pubbliche. Come, ad esempio, il consiglio comunale di Canale d’Agordo, che ha deliberato all’unanimità di non volere profughi nel proprio territorio. In questo caso, se Renato Marangoni volesse imitare Albino Luciani, che sanzionò le parrocchie di Dogna e Provagna con l’interdetto, cioè la chiusura della chiesa alle attività liturgiche, dovrebbe richiamare quei battezzati al loro dovere di cristiani. Quel sindaco e quei consiglieri comunali, che si prostrano davanti a cardinali e vescovi,  quando  salgono a Canale per onorare la memoria di Papa Luciani, e che non vedono l’ora che la causa di beatificazione porti sempre più pellegrini-turisti nel loro paese, sono l’esempio clamoroso dell’ipocrisia cattolica di questi paesi senza più anima cristiana.
La condanna di Canale d’Agordo da parte del vescovo potrebbe essere un primo segnale di una nuova tendenza ecclesiale nello spirito del vangelo e di papa Francesco. La Chiesa come segno di contraddizione e madre che accoglie chi è nel bisogno e nella sofferenza.
Lucio Eicher Clere