domenica 14 settembre 2014

Papa Francesco a Redipuglia, un’occasione mancata




    Sono risuonate potentemente le parole di Papa Francesco nella celebrazione per il centenario dell’inizio della maledetta guerra, che durò cinque anni, dal 1914 al 1918. “La guerra è una fol­lia – ha detto Ber­go­glio-men­tre Dio porta avanti la sua crea­zione, e noi uomini siamo chia­mati a col­la­bo­rare alla sua opera, la guerra distrugge, anche ciò che Dio ha creato di più bello, l’essere umano. La guerra è folle, il suo piano di svi­luppo è la distru­zione”. Parole che avrebbero dovuto recepire quelle migliaia di militari presenti sulla spianata davanti a quel retorico monumento, chiamato “Sacrario”, che è stato costruito per esaltare “l’eroismo e la dedizione alla Patria” delle migliaia di vittime della follia di capi di stato e generali che li hanno mandati al massacro. 
   Sappiamo che un capo di stato, qual è ancora il pontefice romano, non può esimersi dal partecipare a incontri ufficiali, dove tutto è preordinato, e la contraddizione e l’ipocrisia sono impossibili da eliminare. Ma proprio per la personalità forte e controcorrente di questo Papa, ci saremmo aspettati qualche gesto simbolico che ponesse i professionisti della violenza, quali sono i militari, di fronte alla storia criminale che li precede, e l’ incompatibilità della professione di soldati con l’appartenenza alla religione di Gesù Cristo. Lo avevano chiesto alcuni preti friulani, testimoni veri della fedeltà al vangelo più che non alla gerarchia ecclesiastica, quelli che da anni scrivono la “lettera di Natale” dove esprimono riflessioni profonde e libere sulla Chiesa e la società, in una lettera aperta inviata a Papa Francesco. 
   “Ci dispiace –scrivono don Pierluigi Di Piazza e altri dieci colleghi- che le Diocesi delle nostre regioni siano state coinvolte esclusivamente come distributrici di “biglietti”, per la partecipazione ufficiale di pochi alla celebrazione. Tutti attendevano con ansia e intenso desiderio una tua visita in occasione del Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale che ovunque, ma in particolare nelle nostre terre, ha seminato morte, distruzione e avvelenato quasi fino a oggi le relazioni tra i popoli e le nazioni che vivono in questo lembo d’Europa. Ma l’organizzazione dell’Ordinariato Militare ha sostanzialmente reso impossibile non solo l’indispensabile preparazione, ma perfino la stessa presenza all’evento”.
   Ecco, un primo gesto che Francesco avrebbe potuto fare in quest’occasione di condanna delle guerre, era la proclamazione ufficiale dell’abolizione dell’Ordinariato militare, dei vescovi castrensi  e dei cappellani militari, tutte figure della gerarchia stipendiate dal Ministero della Difesa. La Chiesa che si ispira a Gesù Cristo ha partecipato per secoli alla violenza armata degli eserciti, benedicendo armi sull’uno e l’altro fronte, con la presenza a sostegno dei soldati pronti all’assassinio dei nemici di preti in divisa, che celebravano messa, distribuivano particole e benedicevano con acqua santa gli assalti all’arma bianca. Condannare questi errori, eliminando il legame tra Chiesa e esercito, togliendo l’incarico agli anacronistici residuati vescovi castrensi e cappellani militari e assegnandoli all’accoglienza dei profughi sulle spiagge della Sicilia, sarebbe stato un segnale molto esplicito per la ribadita scelta della nonviolenza che Papa Francesco predica e pratica nella sua azione pastorale.
   Significativa la scelta del Papa di visitare il cimitero dei soldati austriaci e ungheresi, ribadendo l’unica verità dell’uguaglianza delle vittime della follia bellica. Ma una sua autorevole parola di condanna della parola “sacrario”, desunta dalla terminologia religiosa (“sacro” infatti è ritenuto da sempre ciò che appartiene alla religione ed alla spiritualità) avrebbe fatto vergognare quanti hanno continuato ad avallare la retorica mussoliniana di esaltazione della vittoria, trasformando un cimitero di vittime in un pantheon di eroi. Quello di Redipuglia non è un “sacrario”, bensì un grande insulto alle vittime della maledetta guerra.
    Ciò che è mancato ancora nel discorso del Papa a Redipuglia è stato il ricordo dei veri eroi di quel periodo, cioè i giovani che si sono rifiutati di imbracciare un fucile e ammazzare altri uomini. Sempre i preti friulani scrivevano nella lettera al Papa: “L’individuazione delle diverse cause e delle chiare responsabilità lascia infatti sempre aperta la grande questione del perché l’essere umano sia così facilmente disponibile alla violenza, alla guerra, all’uso delle armi, perché accetti gli ordini assurdi e disumani e non esprima l’obiezione di coscienza agli ordini che provocano morti, feriti, distruzioni. Migliaia e migliaia di soldati sono stati processati e uccisi, anche sul Carso, perché si sono rifiutati di obbedire a comandi contro l’umanità: sono stati a lungo bollati come vigliacchi e disertori, per noi sono profetici testimoni di umanità e di pace; meritano di essere esplicitamente ricordati nella celebrazione della memoria!”. 
   Attendiamo da Papa Francesco sempre maggiore coraggio nell’affermare e praticare nella Chiesa la coerenza del messaggio non violento di Gesù.
Lucio Eicher Clere

sabato 13 settembre 2014

Un vescovo banal-popolare




Che l’episcopato di Giuseppe Andrich ai vertici della diocesi di Belluno-Feltre trascorresse “sanza infamia e sanza lodo” era facile profetizzarlo fin dal giorno in cui si diffuse la notizia che, a sostituire Vincenzo Savio, era stato nominato il suo vicario generale, che lo aveva supplito negli ultimi mesi di malattia. A farlo prevedere era il curriculum del soggetto, entrato nella bambagia del seminario fin da piccolo e rimastoci, con qualche uscita attorno al campanile del duomo di Belluno, fino al Centro Giovanni XXII di Piazza Piloni, fino a tutt’oggi. Una carriera ecclesiastica sulle orme del compaesano Albino Luciani, che però dopo la nomina a vescovo di Vittorio Veneto, ebbe ancora un altro avanzamento professionale come patriarca di Venezia, fino all’elezione a papa, 264esimo successore di Pietro. Chissà che, visto che basta salire i vertici gerarchici nelle Chiesa cattolica per avere titoli per essere proclamati santi, non accada anche a Andrich di essere proposto almeno per la venerabilità, quando (“anco tardi a venir”) concluderà il suo percorso terreno…Scherziamo coi fanti, ovviamente. Anzi con gli alpini. Perché una delle passioni di questo vescovo, visto che tra i tanti privilegi avuti in giovinezza ebbe anche quello di essere esentato dal servizio militare, è quella di mettersi il cappello d’alpino e cantare canzoni di naja e di montagna. Memorabile(si fa per dire…) la conclusione della manifestazione per la difesa della provincia, tenutasi senza alcun risultato nel 2012, quando dai microfoni del palco in piazza duomo intonò “varda la luna come la cammina…senza alpini come farò!”. 
Quando fu eletto vescovo nel 2004, molti confratelli ebbero lo stesso pensiero di quell’uomo di Comelico Superiore che, quando gli facevano osservare che aveva sposato una donna brutta, rispondeva rassegnato: “Par cà da nei fa e vanza”, certi che la scossa e le speranze del breve episcopato di Savio non si sarebbero ripetute. Infatti il sinodo diocesano, convocato dal predecessore e portato a conclusione da lui, non produsse altro che un libro di belle (si fa per dire…) parole senza alcun cambiamento nella prassi diocesana e nel lento e inesorabile declino della vita religiosa tra le vallate del Piave, del Maè, del Cordevole. Il decennio andrichiano ha continuato  nel grigiore di un clero sempre più vecchio, senza ricambi, con pochi giovani preti disorientati e molti di loro in crisi per la scelta celibataria. Né si poteva pensare che un funzionario ligio alle leggi canoniche potesse nemmeno pensare in privato ciò che tutti i cristiani feltrini e bellunesi hanno pensato quando don Giulio Antoniol decise di lasciare la tonaca perché si era innamorato di una donna, e cioè che è tempo ormai passato che la Chiesa abolisca l’assurda e anacronistica imposizione del celibato obbligatorio per i preti, salvando così il servizio ministeriale di persone preparate e motivate, che potrebbero svolgere il loro ruolo di parroci anche con famiglia, come da secoli fanno egregiamente i pastori e le pastore evangeliche. Mai nel decennio andrichiano si è vista la Chiesa locale prendere posizione sulle questioni calde, come l’immigrazione così osteggiata dai benpensanti bellunesi, mettendo a disposizione dei profughi le decine di canoniche vuote.
Il vescovo di Canale d’Agordo (paese di carriere gerarchiche!), ha preferito adeguarsi al livello banal-popolare che contraddistingue la gran parte dei personaggi (si fa per dire…) che hanno assunto ruoli dirigenziali in questo lembo marginale di terra dolomitica. Nella trascorsa estate, forse anche complice l’avvicinarsi della scadenza del mandato episcopale (compirà 75 anni il prossimo marzo 2015), Giuseppe Andrich ha dato spettacolo di questa banalità in varie occasioni. Ricordiamo l’improbabile karaoke alla festa degli ex emigranti a Vigo di Cadore. Così pure la sceneggiata del tirare una vecchia sega, inconsapevole o indifferente alle battute maliziose che tale gesto inevitabilmente avrebbe comportato, alla festa degli antichi mestieri a Danta di Cadore. E sempre in ridicola gara di presenzialismo con un ex politico provinciale, presidente scaduto e scadente (participio presente del verbo scadere…), ma sempre col culo caldo alla ricerca di qualche sedia, anche rotta, su cui sedersi per scaldarla.
Dopo questo decennio di episcopato, la diocesi di Belluno-Feltre non avrà nulla da rimpiangere, solamente da sperare che il prossimo vescovo non prosegua le orme banal-popolari di quello attuale.
Lucio Eicher Clere