La diocesi
di Belluno-Feltre deve rinunciare ai suoi sacerdoti migliori a causa dell’assurda
persistenza del celibato obbligatorio per chi sceglie il ministero di
presbitero.
Un clero
vecchio e stanco, frustrato e inaridito nei sentimenti, tenta di far credere
alla gente, anche ai fedeli più devoti, che le debolezze della carne sono
un’eccezione, che il povero “don” che si è lasciato invischiare in una storia
d’amore con una donna sposata e madre era “sotto stress”. Poveri ipocriti e
difensori della disumanità. Stanno resistendo dentro alla trincea dell’egoismo
celibatario, imponendo a se stessi ed ai pochi giovani che ancora hanno forza e
coraggio per mettersi a disposizione di una comunità parrocchiale, la rinuncia
all’affettività ed alla sessualità, siano esse omo o eterossessuali. Il declino della vita cristiana negli ultimi
decenni è legato anche alla scarsità di risorse umane dentro alla casta
pretesca, perché la caratteristica fondamentale per “consacrare” un giovane
come sacerdote è la sua rinuncia alla sessualità. Arrivano al sacerdozio pochi
giovani fragili e mal-educati ai rapporti
affettivi, che non hanno chiarito a se stessi se la scelta celibataria è
una caratteristica che può far parte del loro bagaglio umano, oppure se è
soltanto una improvvida accettazione di un ordine assurdo e fuori del tempo.
Eppure
l’amore è l’unica legge che Gesù e i suoi primi apostoli che hanno dato origine
alla chiesa cristiana hanno posto come guida della fede personale e
comunitaria. L’amore si esprime in vari modi, ma è sempre legame concreto,
sguardo, parola, intesa di occhi e di cuore. Dall’intensità di rapporto tra
madre e figlio, alla scoperta degli impulsi dell’innamoramento
nell’adolescenza, alla scoperta della totalità del donarsi reciproco tra
persone che si conoscono e si scelgono. L’imposizione del celibato a preti,
frati e suore, con la spiegazione che la “verginità” permette di amare tutti
con più apertura di cuore è un’invenzione ipocrita, che spesso si traduce
nell’esercizio dell’indifferenza, perché amare tutti può anche voler dire non
amare nessuno. Preferisco di gran lunga i sacerdoti e le suore che hanno il
coraggio di rompere l’oppressione celibataria, anche con scelte dure e
sofferte, piuttosto che il gregge dei succubi che non ha mai accostato il
mistero dell’amore dentro allo spirito ed al corpo di una umanità che proprio
il Dio dell’amore ha dotato di sessualità e di affettività.
Se i sinodi
dei vescovi cattolici capissero il momento storico di un papato svincolato dai
legacci e dai conservatorismo vaticani e affrontassero con libertà e lucidità
il tema del sacerdozio non celibatario, darebbero alle comunità cristiane un
segnale di grande apertura nell’anno del giubileo della misericordia. Una
misericordia che essi dovrebbero esercitare verso se stessi prima di tutto,
lugubri detentori di una legge mai detta e mai voluta da Gesù, se non per
libera scelta di chi voglia essere “eunuco per il regno dei cieli”.
L’esperienza secolare del servizio ministeriale esercitato dai “pastori e
pastore” protestanti è lì a dimostrare quale sia la strada da percorrere per
rendere più credibile la funzione di guida delle comunità dei credenti in
Cristo. Ammettere di aver sbagliato per secoli, imponendo agli altri “pesi che
non si possono portare (Mt. 23, 4)”, potrebbe essere un passo verso un
ecumenismo vero e dialogante, e una finestra aperta per far entrare il vento
dello spirito, che è luce e amore.
Mi sento
umanamente vicino a quel sacerdote e a quella donna che hanno vissuto la fascinazione
dell’innamoramento. Amare non è mai peccato.
Lucio Eicher
Clere
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