venerdì 13 dicembre 2013

Salesiani da baraccone




Che delusione i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice! Per preparare l’anniversario dei 200 anni dalla nascita del loro fondatore, il prete piemontese Giovanni Bosco, non hanno avuto di meglio da fare che mandare in giro per l’Italia una reliquia, cioè una finta salma imbalsamata, copia di quella che conservano a Torino. E ci tengono anche ad informare quanti sono stati presi dalla curiosità di andare a vedere questa cassa da morto trasparente, che la “reliquia” c’è davvero, la mano destra di don Bosco, “quella che il santo protettore dei ragazzi ha sollevato innumerevoli volte per benedire i suoi fanciulli e per pregare con loro”.
Che pena questo tipo di religiosità. Se don Bosco potesse mandare qualche fulmine dall’alto, o apparire in sogno (come a lui capitava e come sapeva raccontarli) al Rettor maggiore della congregazione, don Pascual Chavez Villanueva, sicuramente tuonerebbe improperi contro questo modo di svilire la fede cristiana e ridurre le opere dei testimoni della pratica evangelica a fenomeno da baraccone. La statua riproducente il profeta ottocentesco dell’attenzione all’educazione dei giovani ha girato per le parrocchie e i collegi salesiani del Veneto per più di un mese, ma è in giro per il mondo da 2009, in attesa dell’apoteosi del bicentenario del 2015.
Che siano proprio i Salesiani, che hanno il grande merito di aver seminato tra i giovani per decenni valori umani e cristiani, a cadere nel tranello della religione-mercato, nell’ambiguità della superstizione miracolistica, che da Padre Pio a Medjugorie attira milioni di creduloni interessati a procurarsi qualche favore all’alto, è davvero avvilente. Cattivo segno per una ripresa di credibilità della fede e della coerenza con il messaggio di Gesù Cristo, se anche i gruppi cattolici più impegnati nel comunicare con la parte più distaccata dalla Chiesa, come sono i giovani, cedono alla tentazione materialista del reliquiume prêt-à-porter .
Chi conosce la realtà delle parrocchie, dove l’attività pastorale è concentrata sulla sacramentalizzazione dei bambini fino all’età dell’adolescenza, quando viene impartito il sacramento della cresima (o confermazione), che in realtà è il rito della de-confermazione e dell’abbandono della pratica religiosa, sa quanto sia difficile mantenere un rapporto di dialogo e di fiducia con i giovani, e ancor più sa quanto poco attecchiscano con loro le tematiche legate alla fede. Di sicuro è difficile trovare un giovane “normale” a cui interessi la reliquia di qualche santo. Immagino che non ci siano stati grandi entusiasmi giovanili attorno alla kermesse dell’esposizione e del tour di don Bosco nemmeno nelle parrocchie rette dai Salesiani.
Tra le righe dell’intervento del direttore dell’Istituto Agosti di Belluno traspare un certo imbarazzo nell’ammettere che non sarà la reliquia viaggiante a far rinascere lo “spirito di don Bosco”. “Dovrà essere un’occasione di verifica –ha detto- per vedere se oggi stiamo portando avanti il compito che ci ha indicato, per ridare alla parrocchia lo stile salesiano, con particolare riferimento alla pastorale giovanile”.
Quanto più opportuno sarebbe stato che il bicentenario della nascita di don Bosco, tralasciando l’esibizione di una assurda corporeità, fosse stata l’occasione per una verifica dei troppi errori commessi nelle scelte fatte dai successori del santo fondatore, in particolare i privilegi della scuola privata, gli eccessivi accumuli di beni immobili, l’imborghesimento dei metodi educativi. Tornare allo spirito delle origini, quando i “miracoli” erano dati dalla nascita e crescita di attività che promuovevano la vita dei ragazzi, superando le difficoltà materiali e spirituali, quando la fede in Gesù Cristo si rendeva coerente tra parola e vita vissuta sia nell’azione di don Bosco che dei suoi collaboratori. Tornare all’attenzione per la marginalità e i bisogni dell’umanità più debole, quella che si affaccia al futuro senza speranze.
Questo è un tempo in cui le idee e l’azione di don Bosco meriterebbero  una ripresa ed una rivisitazione aperta a tutta la comunità ecclesiale. E sicuramente tanti Salesiani lo stanno facendo e, probabilmente in cuor loro, inorridiranno per la sceneggiata della “venerazione delle sante reliquie” di un grande profeta ottocentesco, di un operatore sociale e spirituale della  contemporaneità, quasi fossimo ripiombati ai tempi medioevali dello smercio di reperti organici di santi e alla vendita delle indulgenze.
Quanto sarebbe più utile, per il rinnovamento della fede cristiana,  se i resti corporei dei grandi testimoni della sequela di Gesù venissero bruciati e dispersi nel vento. Segno visibile della loro immersione nell’eternità dello Spirito e della continuità del loro messaggio nella vita di chi intende raccogliere e seguire il loro esempio.
Lucio Eicher Clere

giovedì 19 settembre 2013

Le scuse del vicario generale a Leonard Boff

Leonard Boff, teologo della Liberazione conosciuto e studiato in tutto il mondo, è tornato nel suo piccolo borgo in Valle di Seren, lassù a Col dei Bof, da dove se n'erano andati via, per raggiungere il Brasile, i nonni ed il padre ancora bambino.
Ha pianto di commozione, quell'uomo di tempra indomabile, che ha resistito alle intimidazioni ed ai provvedimenti punitivi di papa Wojtyla, alle contestazioni dell'allora prefetto per la Congregazione della fede Joseph Ratzinger, alle umiliazioni delle gerarchie brasiliane, asciugandosi le lacrime con un fazzoletto, prima di entrare nelle stanze di quell'abitazione abbandonata da più di un secolo e che ora, anche con l'augurio del suo carisma, potrebbe riaprire le porte a nuove presenze, grazie al progetto della Fondazione Val di Seren Onlus.
Lo hanno fatto parlare in chiesa, introdotto da canzoni popolari di emigrazione, e nessuno si è stupito che quello spazio liturgico-sacrale mescolasse la vita con la fede. Così come la teologia della Liberazione aveva intuito negli anni Sessanta del secolo scorso, portando le idee del Concilio vaticano II nella quotidianità dei poveri e degli oppressi dalle ingiustizie in America Latina, in quei decenni massacrata dai poteri militari sostenuti dagli Usa. Una teologia, quella pensata e concretizzata dai teologi radicati nella vita del popolo, che non era piaciuta alla casta clericale, al papa polacco, che non andò sulla tomba di Oscar Romero, ma apparve sul balcone della Moneda a fianco del dittatore Augusto Pinochet.
Leonard Boff venne sospeso a divinis e poi "ridotto allo stato laicale" (quasi questo provvedimento fosse una condizione di inferiorità!), ma come tutte le menti libere e dotate di grande capacità di ricerca e di esposizione non obbedì al silenzio imposto dal Vaticano, e continuò ad approfondire gli argomenti teologici ed etici che lo avevano segnalato sulla scena mondiale come uno dei maggiori studiosi dei meccanismi di sfruttamento delle persone e delle risorse della terra, e di una lettura teologica di questi fatti. Ora fa parte di commissioni internazionali per lo studio delle condizioni climatiche e del rispetto della terra. La sua nuova frontiera è l'eco-teologia della Liberazione.
Dopo l'elezione a papa di Jorge Bergoglio c'è stata una rivalutazione di Boff e Gutierrez, come di altri teologi sudamericani. Quelli che li avevano condannati ed esclusi ora li intervistano e citano le loro affermazioni. La teologia della Liberazione è stata considerata come "teologia dalla Chiesa" anche dall'attuale prefetto della Congregazione della fede, ex Sant'Uffizio, Gerhard Muller, che ha scritto un libro proprio insieme a Gustavo Gutierrez.
Chissà che non la studino anche nelle residuali trincee dei seminari. Al tempo della restaurazione wojtyliana l'avevano bandita dagli studi teologici e le diocesi di Belluno era stata in prima fila nel chiudere gli spazi della libera ricerca, per tornare alla tradizione magisteriale.
Nella chiesa di Val di Seren ad ascoltare Boff c'era anche il vice vescovo di Belluno-Feltre, Luigi Del Favero. "Voglio approfittare di questa occasione -ha detto rivolgendosi a Leonard- per pagare un debito. Chiedo scusa per non aver capito il suo insegnamento. Noi abbiamo limitato lo studio della teologia all'aspetto teorico, e invece grazie a voi, teologi della Liberazione, abbiamo capito che essa deve agganciarsi alla prassi". Meglio tardi che mai. Se assieme a lui ci fossero stati molti sacerdoti della diocesi (e invece ce n'erano solo sei!), avrebbero potuto capire quali sono le priorità che la dirigenza della Chiesa locale dovrebbe privilegiare. Burocrati del sacro, i preti stanno accompagnando le comunità vecchie e stanche verso la fine di una esperienza religiosa senza fondamento biblico e culturale. Se si fosse dedicato più tempo a formare pochi, ma convinti, cristiani che seguissero gli insegnamenti e la prassi di Gesù, e si fosse messo in pratica il modello della fraternità, anzichè del potere gerarchico, forse qualche segno di speranza per una Chiesa del futuro ci sarebbe. La teologia della Liberazione ha tanto da insegnare in questo senso. E la presenza di Leonard Boff nella valle abbandonata dei suoi avi è un piccolo, ma significativo, lumicino acceso nel crepuscolo serale di un cattolicesimo moribondo.
Lucio Eicher Clere

domenica 25 agosto 2013

Domenico delle montagne




Costalta è un nome esplicito, paese radicato sul pendio del monte Zovo, con gli occhi delle case a sud, per ricevere tutta la luce del sole, che l’orizzonte gli concede. Appartenervi è condizione famigliare oppure scelta ragionata. Domenico Di Stefano, montanaro d’Abruzzo, era arrivato a Costalta casualmente, cercando una occasione di acquisto di una casa nelle Dolomiti. Una casa non rifinita, perché per lui, che aveva appreso le tecniche di muratura, ma anche di idraulica ed  di elettricistica nella costruzione della sua casa a Lavinio, sarebbe stato importante metterci mano e renderla funzionale all’abitabilità condivisa.  Non è stato un turista, come i tanti che comprano la seconda casa in montagna; Domenico è entrato da subito nella comunità, conoscendo le persone, rendendosi disponibile all’organizzazione sociale e parrocchiale, contribuendo in ogni occasione a superare eventuali problemi o difficoltà.
Montanaro di spirito, egli si sentiva a proprio agio nel paese che considerava ormai suo. Ne conosceva le stradine, i sentieri più adatti a raggiungere la vetta dello Zovo, dove amava spaziare con lo sguardo e far salire dal cuore alle labbra lodi di ringraziamento al creatore per aver deliziato la mente dell’uomo con la bellezza e l’armonia delle forme e dei colori che decorano i paesaggi montani. Una appartenenza dell’animo, che sapeva comunicare ai tanti amici della pianura, che negli anni sono saliti, magari ospiti in quella mansarda trasformata in  spazio ricettivo e accogliente, con soppalchi in legno, balaustre sopraelevate, dove disporre una branda per consentire una o due notti di pernottamento e respiro fresco dall’afa estiva della riviera del Brenta. Diversi amici di Domenico hanno acquistato casa a Costalta, contribuendo a formare una piccola comunità di ospiti che ben si integrano nella comunità degli originari. Domenico aveva la capacità di dialogare e farsi capire anche dalle persone che nei paesi hanno la tendenza a contrapporsi a chi viene da fuori. Stemperava i contrasti, cercava i compromessi, se c’era il caso rinunciava a qualcosa pur di superare gli ostacoli.
Anche quando la malvagità di alcuni abietti, raccolta e rilanciata con una denuncia penale da parte del sindaco di San Pietro e dal maresciallo dei carabinieri di Santo Stefano, che lo avevano accusato di tentato furto di corrente elettrica, perché aveva aperto una scatola elettrica sul palo della corrente pubblica, per staccare un filo penzolante, che era pericoloso per le persone che andavano a messa nella cappellina attigua alla sacrestia, poteva portarlo a chiudere ogni relazione umana con questi calunniatori, Domenico non si ribellò all’ingiustizia e affrontò con fiducia il processo penale. Sei udienze che lo prostrarono fisicamente, ma che alla fine dimostrarono con evidenza, cioè con la formula “il fatto non sussiste”, che l’azione era stata fatta a fin di bene.  E’ possibile che quel piccolo calvario sia stato tra le cause che hanno minato il suo fisico, ma il suo animo era uscito indomabile anche da quella brutta esperienza. Come una roccia, Domenico sfidava il vento delle avversità e riusciva con poche parole a comunicare fiducia e riportare serenità dove poteva esserci cupezza e astiosità.
I molti paesani che erano diventati suoi amici contavano in una sua presenza più continuativa dopo che era andato in pensione. Progetti e voglia di lavorare per un rilancio dell’attività parrocchiale, spenta ormai da anni, non mancavano di intessere gli incontri intorno a un tavolo, assaporando le sue minestre di fagioli, o le sue pizze cotte nella stube, o le camminate sui sentieri dove negli anni Ottanta era passato anche Karol Wojtyla, il papa amante della montagna, che Domenico, Gabriella e le figlie ebbero la fortuna di incontrare in un pomeriggio scendendo da Monte Zovo. Resterà il rimpianto di aver dovuto subire lo strappo della sua morte troppo presto, troppo inaspettatamente.
Domenico diceva che avrebbe voluto essere sepolto nel cimitero di Costalta, per poter guardare le Terze, che ammirava dalle finestre della sua casa. Non importa se i suoi resti diventeranno terra altrove. Tra il monte Zovo, le Terze, il Peralba e il Popera volteggia nel vento la sua anima di luce e d’amore.

Lucio Eicher Clere

domenica 17 marzo 2013

Se un papa Francesco...



E’ piaciuta a tutti la scelta di Jorge Mario Bergoglio, il nuovo papa, di chiamarsi Francesco, con esplicito riferimento al radicale testimone della fede in Gesù, vissuto ad Assisi per 45 anni tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo. Che per otto secoli, pur essendo stato Francesco uno dei santi più considerati e amati non solo dai cattolici, nessuno ai vertici della Chiesa avesse mai pensato di prenderlo a modello di vita assumendone il nome, è indicativo di quanto contradditorio sia stato l’apprezzamento per il “poverello d’Assisi” da parte di quella gerarchia che non l’aveva tollerato da vivo per la sua intransigenza nell’applicare il vangelo alla lettera e nello snaturarne il messaggio dopo morto, tanto che si può dire che il francescanesimo sta a Francesco come il cristianesimo sta a Gesù.
Se questo pastore che viene dal continente latino americano, dove la realtà sociale fa ancora corrispondere il termine “povertà” al suo vero significato di mancanza di beni e di certezze, si è prefisso di riportare la Chiesa cattolica al messaggio francescano di fedeltà a “madonna povertà”, è possibile dargli credito, anche per i gesti che ha compiuto da vescovo di Buenos Aires.
La votazione di Bergoglio come vescovo di Roma è avvenuta nel periodo quaresimale, in quel tempo in cui si ricorda il simbolico ritiro di Gesù nel deserto. La narrazione evangelica presenta, alla fine della quarantena di digiuno, le tentazioni del diavolo a Gesù. Secondo Matteo, Satana lo sfida con la proposta del cibo facile sia per il corpo che per lo spirito, con il miracolismo, con la ricchezza e il potere. Da Costantino in poi la Chiesa nata dalla fede nel Risorto si è trasformata in una struttura di potere e di ricchezza, di cui il Vaticano e lo Ior sono la dimostrazione più inaccettabile, che nessun riformatore è mai riuscito a modificare e cancellare.
Se un papa eletto durante la quaresima avesse il coraggio di affrontare questa sfida alla tentazione del potere e della ricchezza, ripetendo a se stesso e alla struttura ecclesiastica le parole di Gesù al Tentatore: “Vattene, Satana! Sta scritto “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”, sicuramente il cammino della Chiesa cattolica prenderebbe un’altra direzione rispetto a quella percorsa per diciassette secoli.
Se un papa Francesco avesse la coerenza di ritornare al messaggio del santo di Assisi e di confrontarlo con tutta la grande richiesta di distacco dalla ricchezza e dal potere che ha contraddistinto il periodo storico in cui è vissuto San Francesco, concretizzatosi nel grande movimento pauperistico in Italia e in Europa, potrebbe recuperare il confronto con l’altra parte dell’esperienza cristiana in Europa, che è stato il Protestantesimo. Come non ricordare infatti che, prima di Francesco, un altro ricco mercante, Pietro Valdo di Lione, compì una scelta analoga, spogliandosi delle sue ricchezze e fondando quel movimento, il Valdismo,  che ha testimoniato la fedeltà al Vangelo attraverso i secoli e le persecuzioni e ancora oggi in Italia e nel mondo dà esempio di coerenza e fedeltà ai principi evangelici. Nella professione di fede del 1180, un anno prima della nascita di Francesco d’Assisi, Valdesio diceva: “Abbiamo deciso di essere noi stessi poveri in modo tale da non essere solleciti al domani e non accettare da nessuno né oro, né argento, né altro all’infuori del vestito e del vitto quotidiano. Ci siamo posti come obiettivo di adempiere i consigli evangelici come precetti”.
Se un papa Francesco rinunciasse al titolo di “capo di stato”, proseguendo con i fatti le parole della prima sera, dove non ha mai pronunciato i termini “papa o pontefice”, ma soltanto “vescovo di Roma”, smantellando l’organizzazione burocratica e diplomatica dello Stato del Vaticano, per dedicarsi totalmente all’annuncio evangelico dell’amore di Dio, collaborando con le Chiese sorelle sparse per la Terra e diventando, come vescovo di Roma, soltanto il presidente della comunione tra tutte le altre, potrebbe aprirsi una nuova stagione per il cristianesimo stanco e svuotato dai giochi di potere della sua gerarchia senza fede.
Se un papa Francesco fosse imitato anche dai vescovi delle diocesi, in particolare quelle italiane, dove valgono ancora titoli ed onori anacronistici e antievangelici, in questi tempi di crisi e povertà, la fede cristiana potrebbe rivitalizzarsi.
Lucio Eicher Clere 

sabato 23 febbraio 2013

Basta papi santi

Se ne sono andati i due papi che avevano trascorso le vacanze estive in Cadore, nella residenza di Mirabello di Lorenzago. L’uno, Karol Wojtyla, di morte naturale, dopo una lunga e spettacolare agonia, che aveva suscitato talmente tanta emozione da far gridare, il giorno delle esequie in piazza San Pietro, “Santo subito!”; l’altro, Joseph Ratzinger, con un gesto senza precedenti nella storia moderna della Chiesa cattolica, dimettendosi dal soglio pontificio e ritirandosi a vita privata in un convento di clausura dentro al Vaticano. Se per molti cadorini e comeliani i ricordi degli incontri con i due papi sono stati emozionanti ed indimenticabili, per l’eccezionalità dell’evento e la carica di carisma che promana da persone rivestite di un incarico elevato e, per i cattolici, unico, tuttavia, a dimissioni di papa avvenute, è possibile riflettere sulla differenza dei due finali di papato e, soprattutto, sul ruolo stesso del papa nella storia del cristianesimo. Il gesto di Ratzinger è stato giudicato da tutti un atto di coraggio e di coerenza, viste la sua avanzata età ed il venir meno delle forze fisiche e psicologiche. Se il gusto della dietrologia ha infarcito le pagine stampate e quelle su web di ipotesi e sospetti, io vorrei soffermarmi invece a sottolineare l’uso che Ratzinger ha fatto della definizione di papato: “Ministero petrino”. Nella parola ministero c’è il concetto di servizio. Ma non quello ridicolo e ipocrtia dell’espressione “servus servorum Dei”, che è stata appiccicata ai papi-re, che dal tempo delle Investiture nei primi anni del secondo millennio fino a pochi decenni fa sono sempre stati considerati il vertice del potere sia politico che religioso, prendendo in giro sia il concetto di servizio che Gesù aveva indicato per i suoi discepoli
(“chi vuol essere il primo sia servo di tutti), sia i tanti autentici credenti nel servizio dell’umanità povera e sofferente, che davvero hanno dedicato la vita a mettersi all’ultimo posto. No, il ministero è un incarico assunto, a seconda delle competenze e dei carismi, all’interno della comunità dei credenti in Gesù, per far crescere l’armonia e l’amore all’interno del gruppo. Ne parla Paolo in molti passi delle sue lettere, e lo riassume in quel bellissimo canto all’amore disinteressato e donativo che è il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Il ministero petrino dovrebbe essere quel ruolo di umile assunzione di responsabilità, che viene presa in carico dal vescovo di Roma, di presiedere la comunione e l’armonia tra le varie Chiese sparse per il mondo. Invece nella storia dell’Occidente cristiano il ruolo del vescovo di Roma, chiamato dopo l’editto di Costantino, di cui quest’anno ricorre l’infausto 1700° anniversario, “Pontefice” come il capo dei sacerdoti pagani dell’antica Roma, è stato considerato come un posto di comando e di potere, a cui tutte le Chiese avrebbero dovuto ubbidire e rendere omaggio, come fosse la visibilità umana della divinità. Tant’è che il Papa è chiamato “vicario di Cristo”, come una sorta di vice-Dio. Questa assurda e antievangelica visione del ruolo del vescovo di Roma nella storia della Chiesa, ha prodotto molte prese di distanza (definite spesso “eresie”), e due scismi, quello della Chiesa d’Oriente nel 1054, e quello dell’Europa del Nord con la rivoluzione di Lutero del 1517 e la nascita del Protestantesimo.
Mi è piaciuta la definizione di “ministero petrino” usata da Ratzinger, anziché “primato petrino”, come fino a Wojtyla si sono sempre espresse le gerarchie cattoliche, perché potrebbe riportare il papato in una dimensione meno tronfia, com’era stata esaltata negli anni del papato giramondo e mediatico di Giovanni Paolo II, e più consona ai tempi difficili, e poco vissuti dai battezzati anagrafici, della religione cattolica. Il “servizio” del papa nella Chiesa di questi anni a venire potrebbe essere il sogno che tanti di noi hanno coltivato, cioè l’abbandono del Vaticano come centro di potere e di rapporti diplomatici con gli Stati del mondo, e la presenza itinerante del papa nella varie Chiese povere del Terzo Mondo, per dimostrare come la prima beatitudine “Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli” si realizzi nella prassi del “servus servorum”. Ma anche in una visione più realistica, cioè consapevole che le strutture di potere e di interessi economici del Vaticano e delle Curie periferiche non sono facilmente scalfibili, l’idea di un papato meno trionfalistico e più “relativo” (con parola che Ratzinger aveva a suo tempo stigmatizzato) potrebbe portare ad una maggiore responsabilità delle Chiese sparse nei vari continenti e ad un maggior confronto e dialogo tra posizioni diverse su questioni teologiche ed etiche all’interno del cattolicesimo. Un'altra speranza legata alla concretizzazione del concetto di “ministero petrino” è quella della ripresa del dialogo e della prassi ecumenica tra le varie esperienze di cristianesimo nel cammino bimillenario della fede in Gesù Cristo. L’ostacolo rappresentato dal papato-potere-infallibile è stato il primo e più grande freno allo sviluppo del dialogo tra le Chiese. Iniziare un nuovo corso di papato relativizzato nel ruolo e nella visione santificata potrebbe portare buoni frutti nel futuro della cristianità. Basta papi-re e papi da santificare appena muoiono. Ratzinger forse ha anche voluto evitare che di lui si raccogliessero elementi organici per farne reliquie, come successo per il sangue di Wojtyla. E di questo i credenti liberi dalla superstizione feticcistica gliene sono grati.
Lucio Eicher Clere

giovedì 10 gennaio 2013

Il cammino verso Santiago


La religione devozionale, spesso mescolata con la superstizione, ha bisogno di appoggi concreti, di miracoli e visioni. I luoghi di raduno delle folle in cerca di conforto o di sorprese legate al soprannaturale non risentono della crisi della fede e della pratica religiosa nella quotidianità di quanti anagraficamente sono segnati nei registri dei battesimi parrocchiali. Sant’Antonio da Padova, come San Pio da Petrelcina, come le varie Madonne viste da pastorelli ignoranti e divenute miracolose, e tanti altri santi e sante le cui reliquie sono sparse in giro per le chiese della cattolicità, resistono all’usura del confronto con la scienza e trovano ancora profeti alla Paolo Brosio ascoltati a reclamizzarli.
Quando i miei familiari mi hanno regalato per i 60 anni un viaggio a Santiago de Compostela, con tanto di cammino a piedi per circa 200 chilometri, mi sono guardato dentro con scetticismo, prima di guardare loro negli occhi per capire se dovevo ringraziarli e accettare o declinare con un garbato rifiuto. Avevo capito l’intenzione che stava sotto questo gesto. A me che sanno essere un lettore costante di testi religiosi, un analista critico delle posizioni del magistero, un sincero ricercatore di un nuova proposta di fede nella vita contemporanea, regalare un pellegrinaggio di antica storia, fatto a piedi come nel medioevo, poteva riservare il fascino del confronto fra teoria e prassi della fede popolare vissuta nei secoli.
Lo scetticismo che contraddistingueva il mio sguardo all’interno era mescolato di paura per dover affrontare una fatica fisica a cui non ero allenato, e anche di dubbio sul valore di un gesto, come quello del pellegrinaggio, che spesso (ne ho fatto alcuni a piedi nei luoghi di culto sparsi per le vallate alpine) raggruppano gitanti dell’occasione, guidati da recitatori di rosari e litanie, che escono quasi sempre in monotonia da bocche scollegate del pensiero.
Ma piano piano ho elaborato un mio significato da attribuire al camminare pellegrino, che dopo qualche giorno ho deciso di accettare come regalo di compleanno. Santiago de Compostela è quanto di più contradditorio possa esserci nella tradizione cristiana d’occidente. Un luogo di culto inventato negli anni del combattimento tra  cristianesimo e islamismo per la “reconquista” della Spagna. Un discepolo di Gesù, che secondo la tradizione avrebbe svolto la prima diffusione del vangelo in Spagna, fatto ricomparire in ossa proprio dalla terra iberica, in Galizia, alla fine del mondo allora conosciuto. Un santo che, alla faccia dell’amore per i nemici che sicuramente avrà predicato e vissuto, viene definito Matamoros, raffigurato su un cavallo con la spada in mano intento ad infilzare saraceni. Un luogo di culto presto diventato meta di pellegrini alla ricerca di una risposta alle loro domande di perdono e di miracolo. Sono stati proprio i pellegrini che camminavano a piedi per i sentieri della Spagna a trasformare Santiago da cavaliere assassino in camminatore e protettore dei  viandanti della fede.
Il cammino delle fede cristiana in Occidente e verso occidente è un percorso millenario che ben può essere simboleggiato nel Cammino di Santiago. Pensavo a questo preparandomi alla fatica (che poi non si è rivelata così insormontabile!), motivando a me stesso la differenza che c’è tra un viaggio di creduloneria ad un santuario mariano o santesco e un percorso penitenziale sulle orme di milioni di persone che hanno calpestato i sentieri che attraversano le pianure e le colline, i villaggi e le città delle regioni spagnole. Passi che si imprimevano sulla terra, polvere dispersa dal vento, sudore asciugato dall’aria, sguardi, incontri, fatiche, sicuramente anche preghiere e speranze di ottenere perdono. Un fiume di vite, impastate di contraddizioni , di peccato e santità, di ipocrisie e autenticità. Un fiume di storia della cristianità, partito puro alla fonte e via via nel suo corso intorbiditosi di fango e di angoli putrefatti, sporcato dal sangue delle torture dell’Inquisizione, degli  ammazzamenti  in nome di Dio, inquinato dalla superstizione spacciata per fedeltà al volere divino, dal potere gerarchico interessato soltanto a perpetuare se stesso, dalle eresie imposte come verità e dalle verità scomunicate come eresie. Ma un fiume che ha dentro di sè la capacità di purificarsi, di tornare acqua limpida, proprio perché lo spirito delle origini ha superato ogni tentativo di distruggerlo. Quello spirito che ha operato nella testimonianza dei veri credenti, sicuramente molti dei quali hanno camminato scalzi e penitenti sui sentieri verso Santiago.
Non so se il mio camminare sia stato dentro a questo corso del fiume della fede, sicuramente lo è stato nel confronto con la variegata umanità che ancora percorre quelle stradine, alla ricerca di un senso alla propria vita, o forse soltanto per un trekking denso di richiami spirituali.
Con il gruppo di persone che avevano scelto di trascorrere il periodo di ferie natalizie in cammino verso Santiago, con l’organizzazione della Compagnia dei Cammini, un giorno ci siamo fermati dentro ad un piccolo eremo romanico, l’unico aperto dei tanti che costellano il percorso. Sapevo che nessuno di loro era partito con motivazioni religiose.  Anzi la gran parte era agnostica, qualcuno ateo. Ma mi sono sentito libero, all’interno di quello spazio dove per secoli ha respirato la religiosità popolare, di raccontare le mie sensazioni di credente critico, che resta dentro la chiesa nonostante i tradimenti che le gerarchie hanno compiuto nei confronti di Gesù Cristo, proprio perché, al di là degli uomini e degli errori, resta la fede camminante, al di là e nonostante noi. Resta, come scrive Turoldo, il fiume della presenza della spiritualità:
“Tu non sei il fiume,
ma ti nascondi dentro al fiume,
non sei la foresta,
ma sei nascosto nella foresta,
non sei il vento,
sei il vento del vento,
e senza non c’è tempo
perciò viviamo
e saremo eterni.” (Da Canti Ultimi)

Lucio Eicher Clere