Se ne sono andati i due papi che avevano trascorso le vacanze estive in Cadore, nella residenza di Mirabello di Lorenzago. L’uno, Karol Wojtyla, di morte naturale, dopo una lunga e spettacolare agonia, che aveva suscitato talmente tanta emozione da far gridare, il giorno delle esequie in piazza San Pietro, “Santo subito!”; l’altro, Joseph Ratzinger, con un gesto senza precedenti nella storia moderna della Chiesa cattolica, dimettendosi dal soglio pontificio e ritirandosi a vita privata in un convento di clausura dentro al Vaticano. Se per molti cadorini e comeliani i ricordi degli incontri con i due papi sono stati emozionanti ed indimenticabili, per l’eccezionalità dell’evento e la carica di carisma che promana da persone rivestite di un incarico elevato e, per i cattolici, unico, tuttavia, a dimissioni di papa avvenute, è possibile riflettere sulla differenza dei due finali di papato e, soprattutto, sul ruolo stesso del papa nella storia del cristianesimo. Il gesto di Ratzinger è stato giudicato da tutti un atto di coraggio e di coerenza, viste la sua avanzata età ed il venir meno delle forze fisiche e psicologiche. Se il gusto della dietrologia ha infarcito le pagine stampate e quelle su web di ipotesi e sospetti, io vorrei soffermarmi invece a sottolineare l’uso che Ratzinger ha fatto della definizione di papato: “Ministero petrino”. Nella parola ministero c’è il concetto di servizio. Ma non quello ridicolo e ipocrtia dell’espressione “servus servorum Dei”, che è stata appiccicata ai papi-re, che dal tempo delle Investiture nei primi anni del secondo millennio fino a pochi decenni fa sono sempre stati considerati il vertice del potere sia politico che religioso, prendendo in giro sia il concetto di servizio che Gesù aveva indicato per i suoi discepoli
(“chi vuol essere il primo sia servo di tutti), sia i tanti autentici credenti nel servizio dell’umanità povera e sofferente, che davvero hanno dedicato la vita a mettersi all’ultimo posto. No, il ministero è un incarico assunto, a seconda delle competenze e dei carismi, all’interno della comunità dei credenti in Gesù, per far crescere l’armonia e l’amore all’interno del gruppo. Ne parla Paolo in molti passi delle sue lettere, e lo riassume in quel bellissimo canto all’amore disinteressato e donativo che è il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi. Il ministero petrino dovrebbe essere quel ruolo di umile assunzione di responsabilità, che viene presa in carico dal vescovo di Roma, di presiedere la comunione e l’armonia tra le varie Chiese sparse per il mondo. Invece nella storia dell’Occidente cristiano il ruolo del vescovo di Roma, chiamato dopo l’editto di Costantino, di cui quest’anno ricorre l’infausto 1700° anniversario, “Pontefice” come il capo dei sacerdoti pagani dell’antica Roma, è stato considerato come un posto di comando e di potere, a cui tutte le Chiese avrebbero dovuto ubbidire e rendere omaggio, come fosse la visibilità umana della divinità. Tant’è che il Papa è chiamato “vicario di Cristo”, come una sorta di vice-Dio. Questa assurda e antievangelica visione del ruolo del vescovo di Roma nella storia della Chiesa, ha prodotto molte prese di distanza (definite spesso “eresie”), e due scismi, quello della Chiesa d’Oriente nel 1054, e quello dell’Europa del Nord con la rivoluzione di Lutero del 1517 e la nascita del Protestantesimo.
Mi è piaciuta la definizione di “ministero petrino” usata da Ratzinger, anziché “primato petrino”, come fino a Wojtyla si sono sempre espresse le gerarchie cattoliche, perché potrebbe riportare il papato in una dimensione meno tronfia, com’era stata esaltata negli anni del papato giramondo e mediatico di Giovanni Paolo II, e più consona ai tempi difficili, e poco vissuti dai battezzati anagrafici, della religione cattolica. Il “servizio” del papa nella Chiesa di questi anni a venire potrebbe essere il sogno che tanti di noi hanno coltivato, cioè l’abbandono del Vaticano come centro di potere e di rapporti diplomatici con gli Stati del mondo, e la presenza itinerante del papa nella varie Chiese povere del Terzo Mondo, per dimostrare come la prima beatitudine “Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli” si realizzi nella prassi del “servus servorum”. Ma anche in una visione più realistica, cioè consapevole che le strutture di potere e di interessi economici del Vaticano e delle Curie periferiche non sono facilmente scalfibili, l’idea di un papato meno trionfalistico e più “relativo” (con parola che Ratzinger aveva a suo tempo stigmatizzato) potrebbe portare ad una maggiore responsabilità delle Chiese sparse nei vari continenti e ad un maggior confronto e dialogo tra posizioni diverse su questioni teologiche ed etiche all’interno del cattolicesimo. Un'altra speranza legata alla concretizzazione del concetto di “ministero petrino” è quella della ripresa del dialogo e della prassi ecumenica tra le varie esperienze di cristianesimo nel cammino bimillenario della fede in Gesù Cristo. L’ostacolo rappresentato dal papato-potere-infallibile è stato il primo e più grande freno allo sviluppo del dialogo tra le Chiese. Iniziare un nuovo corso di papato relativizzato nel ruolo e nella visione santificata potrebbe portare buoni frutti nel futuro della cristianità. Basta papi-re e papi da santificare appena muoiono. Ratzinger forse ha anche voluto evitare che di lui si raccogliessero elementi organici per farne reliquie, come successo per il sangue di Wojtyla. E di questo i credenti liberi dalla superstizione feticcistica gliene sono grati.
Lucio Eicher Clere