lunedì 28 febbraio 2011

Sul Miesna l’indulgenza per gli adoratori del teschio


Sembra incredibile che a settecento anni dalle furbate di Frate Cipolla, raccontate da Boccaccio in una novella del Decameron, che conservava la reliquia di una piuma dell’angelo Gabriele;  a ridosso dei 500 anni dalla Riforma di Lutero, vento dello Spirito in Germania per cancellare il mercimonio delle indulgenze, vendute dal Papa e della Curia romana per rimpinguare la casse vuote dello Stato pontificio; a 45 anni dal Concilio Vaticano II, che aveva aperto le porte del dialogo ecumenico e quindi suggerito la rinuncia ai gesti più clamorosamente ostili verso i fratelli evangelici, ci siano ancora diocesi che ripropongono riti medioevali, come la promulgazione di un anno giubilare per ottenere l’indulgenza plenaria andando in visita in un santuario dove verrà esposto il teschio-reliquia del santo patrono.
E invece accadrà che la diocesi di Belluno-Feltre, in crisi di partecipazione di fedeli alle messe e alla pratica religiosa, in continuo arretramento della testimonianza evangelica nella società, in penosa carenza di personale dirigente, affiderà le sorti della sua “ripresa” al teschio di San Vittore, rubato ai tempi del Boccaccio dall’Imperatore Carlo IV di Boemia, e conservato a Praga nella cattedrale, che si è resa disponibile (probabilmente dietro compenso) a prestare il macabro resto per farne oggetto di culto nel santuario sul monte Miesna, dove i feltrini hanno sempre chiesto grazie ai due santi che considerano loro protettori, Vittore e Corona.
Sembra incredibile che in una società materialista e pragmatica, dove per risolvere i problemi di salute si pagano le visite specialistiche e non si pregano più santi e madonne; dove il senso del peccato è completamente scomparso, tanto che ai vertici delle istituzioni pubbliche si prende in giro la religione proclamandosi sostenitori della famiglia tradizionale nei convegni e pagando prostitute minorenni nelle notti di piacere; dove bambini e giovani non hanno alcun rapporto con la ritualità e l’insegnamento catechistico, ci sia ancora la voglia da parte dei vertici gerarchici di pescare nel pozzo profondo della superstizione, per ricavarne qualche vantaggio di presenze nello spazio del sacro e, soprattutto, offerte, che un numero sempre maggiore di cattolici anagrafici non dona più abitualmente, e quindi le occasioni straordinarie come i giubilei possono aumentare. L’abbiamo visto a san Giovanni Rotondo, con il cadavere di san Pio da Petrelcina con la faccia al silicone; lo vedremo con la riesumazione delle spoglie di papa Wojtyla, da beatificare al più presto per risanare i bilanci in rosso del Vaticano; lo vedremo con il teschio di san Vittore esposto in una teca di vetro. Una Chiesa che non sa parlare alla gente con le parole del vangelo e preferisce affidarsi alla creduloneria residuale, non certo illudendosi che questo possa far ravvivare la fiamma della fede morente, ma certa di salvare il proprio prestigio terreno e il potere che perdura su schemi e segni trionfalistici.
Verrebbe da chiedersi a quanti il vescovo Andrich e il rettore del santuario, Dalla Rosa, novelli frati Cipolla, riusciranno a far credere che, con la visita nella chiesa sul Miesna  entro l’anno giubilare e con un cospicuo lascito di euro, saranno cancellati tutti i peccati.
Soprattutto sarebbe da chiedere a loro con quale arroganza spirituale e quale eretico possesso della misericordia di Dio, spacciata dai trafficoni del Vaticano attraverso la cosiddetta “indulgenza plenaria”, presumano di perdonare i peccati dei singoli credenti, che solo davanti alla loro coscienza ed alla fede nel Dio-Amore possono ritrovare la pace interiore.
Che il giubileo del teschio di san Vittore sia soltanto una trovata pubblicitaria è evidente anche dal pieno accordo tra Comune di Feltre, associazione commercianti, agenzie turistiche e diocesi nel far fruttare al massimo il turismo religioso verso la basilica sul Miesna. In questo Andrich è un vero discepolo del vescovo Ducoli, che aveva ideato il santuario della Madonna sul Nevegal per rilanciare turisticamente il Colle di Belluno. Quel fittizio luogo di culto non richiamò le folle dalla pianura veneta, e probabilmente neppure il teschio di San Vittore smuoverà masse di fedeli creduloni.
Resta la profonda amarezza di chi vorrebbe sperare in un rinnovamento autentico della comunità dei credenti in Gesù Cristo, con la ripresa della coerenza con il vangelo ed il distacco dal denaro e dal potere.
Amarezza anche per lo sfregio alla memoria di un martire, cioè di un testimone della fede in Gesù come fu Vittore ai tempi della persecuzione da parte del potere imperiale romano, ridotto a macabro oggetto di culto. Per rispetto a lui ed alla fede autentica di generazioni di cristiani delle vallate feltrine, che sul Miesna venivano in cammino a pregare e trovare sollievo dalle fatiche di vite misere, toglierò l’immagine che avevo scelto come simbolo di questo blog, accompagnandola con la scritta del vangelo di Giovanni “è giunto il momento in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre…”. Su questo monte Miesna per un anno si favorirà la superstiziosa adorazione di un teschio.
Lucio Eicher Clere

domenica 20 febbraio 2011

La casta dei preti che vuol bastare a se stessa



Nella diocesi di Belluno-Feltre fa discutere la crisi di alcuni sacerdoti, che per esaurimento, depressione, innamoramento, si ritirano dall’attività pastorale, o scelgono di “gettare la tonaca alle ortiche”, come si sarebbe detto in tempi in cui la tonaca la portavano tutti gli appartenenti alla gerarchia cattolica. Le spiegazioni uscite dalla dirigenza diocesana tendono a minimizzare, a farne dei casi singoli. Ma quando i numeri crescono e i problemi emergono anche in figure che non avevano mai dato segni di squilibrio, sarebbe utile che vescovo e colleghi curiali si mettessero davanti all’evidenza del disagio del mestiere di prete nella Chiesa contemporanea. Può darsi che lo facciano, anche se sarà difficile che Giuseppe Andrich, diventato vescovo dopo una carriera prettamente curiale, che lo ha visto occuparsi di organismi associativi, parrocchia in centro città, rettore del seminario, vicario generale, cioè capo della burocrazia diocesana, osi mettere in discussione la struttura che lui ha contribuito a mantenere nel vecchiume che dimostra. Di chi sono discepoli, infatti, quei pretini usciti in questi anni dal seminario, impostati mentalmente come degli impiegati della religione, preoccupati del proprio tempo libero e degli hobby più che della crescita insieme alla comunità nella coerenza al vangelo? Fa specie e forse anche un po’ di pena leggere le “soluzioni” consigliate, per superare lo stress da attività pastorale, dal monsignore arcidiacono di Agordo, Giorgio Lise, a suo tempo in predicato di diventare vescovo di Vittorio Veneto. “Il fatto di essere sotto organico è sotto gli occhi di tutti. Da qui si è espressa corale la volontà di vivere di più la fraternità sacerdotale. Io auspico confronti più frequenti. Anche una telefonata, due chiacchiere fanno sempre piacere e ci fanno essere vicendevolmente più vicini”. L’idea di far vivere i preti in comunità e di creare “zone pastorali” dove vari parroci vivano in una canonica unica la quotidianità e l’organizzazione concertata delle mansioni è stata una “pia illusione” di vari vescovi succedutisi in questa come in altre diocesi. Ma se i preti sono stati allevati e formati in seminari, dove hanno imparato a vivere la solitudine personale ed affettiva come l’esperienza più forte e decisiva per misurare la solidità della propria vocazione? Se a questi “specialisti”del sacro è stato insegnato a gestire personalmente tutta l’organizzazione parrocchiale, non delegando alcunchè ad altri, nemmeno ai cappellani, considerati fino a qualche anno fa come dei collaboratori a servizio del principale? Infatti tutte le piccole esperienze di comunità o di fraternità sacerdotale sono abortite o ipocritamente vissute con la stessa individualità a cui ogni prete preferisce adeguarsi.
E intanto le comunità cristiane diventano sempre più aggregazioni formali di cattolici abitudinari, senza entusiasmo e senza coinvolgimento progettuale da parte di tutti, prete e laici, uomini e donne.
Quale azienda, ci si potrebbe chiedere, dopo aver constatato che i propri dirigenti da anni perdono clienti e non riescono a comunicare con quelli che rimangono per abitudine, non cambierebbe strategia? La Chiesa cattolica in occidente, e soprattutto nelle zone più soddisfatte nelle esigenze materiali, ha perduto aderenti e non riesce a comunicare l’originalità e la radicalità del messaggio di Gesù. La casta sacerdotale continua nel suo modo di essere e di formare i nuovi preti senza mai coinvolgere, nella responsabilità di cambiare e costruire nuove prospettive comunitarie, i laici, senza mai discutere se il celibato libero, il sacerdozio femminile potrebbero dare un volto nuovo a una gerarchia sclerotizzata dentro a schemi e formule che nessuno capisce. Chi ama la Chiesa dovrebbe preoccuparsi del suo involversi e della sua incapacità di comunicare con i giovani, che dopo la cresima se ne vanno dalle parrocchie. Invece i preti sembrano indifferenti e preoccupati di salvare se stessi e la gerarchia. Come se le parole di Gesù “la messe è molta e gli operai sono pochi; pregate il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10, 2), fossero state dette per creare una casta di professionisti della predicazione e non una comunità di testimonianza dell’amore di Dio nel mondo.
Lucio Eicher Clere

mercoledì 9 febbraio 2011

Per l’eutanasia, cioè la buona morte



L anniversario della morte di Eluana Englaro, che tante polemiche aveva suscitato nei giorni in cui a Udine si era concluso il percorso biologico della giovane donna rimasta senza coscienza per 17 anni a seguito di un incidente stradale, ripropone il tema del fine vita, del rispetto della volontà della persona sul proseguimento o no delle cure, del cosiddetto “testamento biologico”. Vengono ancora i brividi di indignazione al ricordo del fanatismo che si era scatenato nei giorni che precedettero la morte di Eluana: le veglie con candele e bottiglie d’acqua davanti alla clinica “La Quiete”, gli appelli in tutte le Radiomarie dell’etere contro il “partito della morte”, l’irrazionale corsa contro il tempo per votare un decreto in parlamento contro la sentenza che aveva accolto il ricorso di Beppino Englaro, le frasi macabre come questa “Eluana, ti amavano tanto che ti hanno fatta morire di fame, di sete e di paura”, fino all’insulto di “assassino” ad un padre che è stato l’immagine autentica della dignità e del rispetto della volontà della figlia. E fa ancora più amarezza pensare che vescovi e cardinali, come Javier Lozano Barragan, che si sono espressi con toni di condanna nei suoi confronti, siano poi quelli che proclamano eroi ed esempi da imitare, per l’idealità e il dono di se stessi al servizio della pace, dei soldati che muoiono in azioni di guerra. “Assassino” Englaro e “benefattori” dei soldati stipendiati, cioè professionisti dell’assassinio a pagamento. Queste assurde contraddizioni fanno pensare a quanta retorica e oscuramento del pensiero ci sia attorno al grande tema della morte e delle modalità con cui ad essa ogni persona si avvicina. In questa società dove la morte è esibita come finzione virtuale per immagini, sia quella vera delle tragedie di ogni parte del mondo, che entrano attraverso televisori e computer in tutte la case, sia quella finta dei mille videogiochi dei ragazzi, che passano ore ed ore con i tasti della playstation in mano ad uccidere e massacrare nemici, la realtà della malattia terminale e della morte viene il più possibile nascosta e tenuta distante. E non potrebbe essere che così, visto i modelli vitalistici esibiti da un presidente del consiglio che a 75 anni, anziché fare penitenza di una vita da peccatore e ritirarsi in luoghi appartati, vuole dimostrare a se stesso e agli altri che il godimento non ha età e che con i soldi si può comprare salute e sesso come in una perenne giovinezza. Per la religione cristiana la morte è sempre stata al centro della riflessione teologica e della predicazione pastorale. Senza rievocare i quaresimali, dove le pene dell’inferno erano lo spauracchio di tutti gli incorreggibili peccatori, la prospettiva di una vita eterna migliore di quella terrena è stato per secoli la finalità ultima della fede in Dio. La “buona morte”, la preghiera e San Giuseppe, che la tradizione ha sempre ritenuto sia spirato tra le braccia di Maria e di Gesù, il rosario nelle case dei defunti, la messa funebre, tutto ciò è sempre stato il normale approccio della comunità cristiana e dei singoli all’appuntamento inevitabile con la fine dell’esistenza corporea. E proprio pensando a questa “normalità” della morte nella visuale cristiana, non può non stupire il cambiamento delle gerarchie cattoliche che sembrano accanirsi nella conservazione della vita materiale, come è accaduto per Eluana, ma come avviene nella divisione tra il “partito della vita”, dei quali sono i promotori, e “i sostenitori dell’eutanasia”, cioè le persone che affermano la libertà nel decidere il rifiuto delle terapie in fase terminale. Chi crede e predica la continuità della vita terrena nell’amore eterno di Dio non dovrebbe avere tanto attaccamento alla materialità. Prolungare la sopravvivenza corporea per qualche mese o anno in più è nello spirito della religione? Cosa sono i 17 anni di coma di Eluana di fronte alla pienezza della sua vita attuale in Dio? Non si riesce a capire la carica blasfema attribuita alla parola “eutanasia”, cioè buona morte. Se si ricorda il modo con cui Madre Teresa di Calcutta avvicinava i moribondi e li teneva per mano negli ultimi momenti del passaggio, si può comprendere cosa sia l’eutanasia. Madre Teresa non ha specializzato le sue suore a diventare professioniste del prolungamento della vita; non ha destinato i fondi che riceveva da tutto il mondo ad acquistare macchinari per prolungare artificialmente esistenze che, senza l’intervento medico e tecnico, si concluderebbero con l’incontro nella luce dell’amore di Dio. Più che di sostegno ai materialisti del prolungamento della vita ad ogni costo, dai cristiani dovrebbe venire l’esempio e la parola in favore della “buona morte”, cioè il rispetto della scelta di ognuno negli ultimi istanti e l’accompagnamento sereno verso una nuova vita.
Lucio Eicher Clere