Un prete della diocesi di Belluno, don Angelo Crepaz, ha patteggiato davanti al giudice per un reato che assicura di non avere commesso. Era accusato di aver sottratto soldi dal conto di un disabile che si era affidato a lui, quand’era parroco in un paese vicino a Longarone, Codissago. Nella vicenda, per caricarla di tinte rosa e di morbosità, ci sarebbe anche una donna, per assecondare la quale don Angelo avrebbe sottratto il denaro.
Non conoscevo don Angelo. Me ne avevano parlato con molta stima e affetto degli amici di Vallada Agordina, dove il prete aveva svolto un incarico pastorale negli anni Novanta, ed era stato molto apprezzato dalla gente, tanto che, quando il vescovo Brollo lo trasferì a Codissago ci fu una mobilitazione di protesta. Lo incontrai un giorno nella canonica di Codissago. Un luogo trascurato, non certo simile agli appartamenti o alle villette nelle quali si rintanano la gran parte dei preti-impiegati del sacro di queste nostre diocesi, ma aperto a chiunque volesse frequentarlo, dov’era visibile la presenza di gruppi di volontariato per attività paesane. Ci presentammo, e don Angelo mi parlò del disagio della attività pastorale, delle difficoltà di svolgere il ministero sacerdotale in comunità dove la fede cristiana è in sempre più evidente arretramento, del suo precario rapporto con i dirigenti diocesani, che avevano relazione diretta con il diacono Zoldan, residente in quel paese, escludendolo il più delle volte anche dalle informazioni concrete tra Curia e parrocchia di Codissago. Non mi diede l’impressione di un prete contestatore, né tantomeno di uno spirito critico nei confronti del conservatorismo ecclesiale. Mi era venuto spontaneo collocare questa figura di prete, nato in una comunità semplice e tradizionale della montagna dolomitica, come uno di quelli che avevano scelto questa professione per un indotto senso di “vocazione”, illusi di esercitare un ruolo sociale e religioso di una qualche importanza, cresciuti in un seminario dove si è cercato di appiattire ogni originalità per “confezionare” preti fuori tempo e fuori luogo. Trovatosi poi nella vita quotidiana di comunità a-religiose, don Angelo aveva cercato di adattarsi al suo ruolo di prete nel modo più vicino alle persone e meno dannoso per non far perdere quel poco di tradizionalismo religioso che ancora rimane nelle famiglie anagraficamente cattoliche. Di sicuro non era un trafficante di denaro o un approfittatore dei deboli. Anzi, i molti che l’hanno conosciuto e stimato sono pronti a giurare che don Angelo non ha commesso quel reato per cui ha patteggiato.
Ho reincontrato questo prete qualche giorno prima dell’udienza in tribunale di Belluno. Era tornato nella sua prima parrocchia, a Vallada, per la festa di San Simon, patrono del paese. Parlando della vicenda spiacevole, che lo aveva portato, suo malgrado, sulle pagine dei giornali locali e nazionali, gli avevo offerto la mia disponibilità di giornalista per dare voce a lui nel raccontare la sua vicenda, così “maltrattata” dal giornale su cui anch’io firmo articoli. Ma egli si è rifiutato irremovibilmente, dicendomi che il vescovo gli aveva creduto e lo stava difendendo e sostenendo anche nelle spese processuali. Da critico del vescovo, quale l’avevo sentito la prima volta a Codissago, era passato a suo fedele servitore, ringraziandolo anche perché gli avrebbe trovato un posto come cappellano dell’ospedale di Belluno. Tutti sanno come quella collocazione sia un ripiego per non eliminare qualche imbarazzante sacerdote, incapace di fare il parroco o magari in crisi esistenziale o di esaurimento depressivo. Conoscendo il cinismo del potere clericale, so bene che non è per amore e vicinanza a don Angelo Crepaz che il vescovo e la Curia di Belluno lo stanno sostenendo e gli pagano le spese processuali, consigliandogli il patteggiamento. Questi forse non si curano nemmeno di sapere cosa sia accaduto e quale sia la verità di don Angelo. A loro importa che della vicenda si parli il meno possibile, che non emergano in cronaca e nei dibattiti sui media le crisi e le difficoltà dei preti, come è accaduto per la scelta del parroco del Duomo di Feltre di convivere con la donna amata e diventare papà.
Sto dalla parte di don Angelo Crepaz e di tutti quei “poveri preti” emarginati dalla diocesi in qualche angolo senza incarichi o utilizzati come tappabuchi. Loro segnalano vistosamente il disagio di interpretare e vivere una professione ormai senza senso in queste comunità indifferenti alla fede, anche se frequentanti le chiese e credulone nelle apparizioni di madonne e santi miracolistici.
Sto dalla parte di don Angelo, che, qualsiasi sia stata l’ambiguità della storia di cui si parla e si è giudicato in tribunale, sicuramente ha agito con la buona fede che caratterizza la sua persona.
Sto dalla parte di don Angelo, vittima due volte della struttura clericale: l’una per aver ricevuto una formazione culturale e umana che gli impedisce di affrontare con coraggio e libertà anche eventuali accuse ingiuste in tutte le sedi; l’altra per l’emarginazione che sta ricevendo da un potere gerarchico che, facendogli credere di essere dalla sua parte, lo mette in disparte, con la segreta speranza di liberarsene definitivamente.
Lucio Eicher Clere